domenica 25 dicembre 2011

I TRADUTTORI... TRADOTTI/2


Riprende la serie di interviste ai traduttori. Come già scritto, il titolo della serie gioca sul secondo significato di tradotti. Quante volte avete letto: «venne arrestato e tradotto in catene innanzi al giudice»?

Tradotto, cioè condotto (le mie catene sono di gommapiuma). 

E in effetti il traduttore conduce il significato (ma non solo) di un testo da una lingua all'altra. In Francia, c'è il vezzo di definirsi passeur, cioè traghettatore.

Ma un traduttore, a mio modo di vedere, è molto di più.
Ho chiesto di parlare di traduzione e di lingua a Paolo Pantaleo, amico, blogger e poeta di parole.

Paolo Pantaleo
                                                  * * *


COGNOME Pantaleo
NOME Paolo

LINGUA/E  Lèttone e Italiano

LUOGO Sesto Fiorentino (FI),  Italia

D.  Perché il traduttore?

R. Perché mi affascina la letteratura lettone e mi sono trovato costretto a tradurla, dato che in italiano non c'è quasi niente di tradotto dal lettone. Uno sporco lavoro che qualcuno doveva pur fare... Ma questa è la risposta burlona, in realtà tradurre autori lettoni è il modo più vicino alle mie attitudini che ho trovato per sentirmi parte di quella cultura e di quella società. Conoscere scrittori lettoni, entrare nella loro lingua e nel loro mondo mi fa sentire finalmente inserito nel contesto lettone. Il mio passaporto personale insomma, il mio esame di cittadinanza lettone.


D. Mestiere o professione, artigianato o arte?

R. Credo possa essere ognuna di queste cose. Per quello che riguarda me certamente mestiere e artigianato (povero). Ma di fronte a certi traduttori, pernso a Landolfi e Ripellino, ad esempio, credo si possa parlare decisamente di arte. Se penso a Serena Vitale o Claudia Zonghetti, direi altissima professione.

D.  Sempre interessante, come mestiere/professione/altro?

R. Io trovo insopportabile dovermi relazionare con il mondo dell'editoria. Dunque, per me nel momento in cui  considerassi la traduzione una professione, o un mestiere remunerativo, perderebbe gran parte dell'interesse.
D'altra parte quando in Lettonia ho incontrato la direttrice del centro per il copyright degli scrittori lettoni, essa stessa traduttrice, la prima cosa che mi ha raccomandato è stata «traduci per pubblicare, non per lasciare nel cassetto il tuo lavoro». Dunque sono in questo limbo, tradurre per pubblicare o per il mio piacere. Una via d'uscita, a cui a volte penso, è quella del self publishing, ma ovviamente in questo caso ci vuole l'accordo dell'autore.

D.  Metodo di lavoro?

R. La prima traduzione è puramente letterale, quasi a prescindere dal senso. La seconda stesura per rendere la traduzione almeno intellegibile e con un senso compiuto. Nella terza comincio a metterci le mani e a cercare di restituirle un senso di opera letteraria.

D. Il tuo stile

R. Traduco da così poco tempo che non credo di averne uno vero e proprio. Cerco di mantenere per quanto possibile lo stile dell'autore tradotto. Devo dire che mi trovo maggiormente a mio agio nel tradurre poesie che prosa, perché mi sento più a mio agio nel riportare il senso lirico di un lavoro che quello prosaico.
Mi colpì molto una volta leggere una postfazione alla traduzione di Tommaso Landolfi di Il viaggiatore incantato di Leskov, in cui Landolfi si lamentava con Einaudi perché gli aveva chiesto di tradurre il romanzo di Leskov, anziché le opere in versi: «L'Einaudi vorrebbe in me (e ci avrebbe diritto) un vivace entusiasmo: ahimè qui non posso servirlo. Tale è il mio avvilimento e il mio disinteresse per la letteratura, che in fondo tutto mi fa lo stesso. Insomma fa' un po' tu, solo tenendo presente che le pinate[1] pagine di prosa russa mi danno il panico; se russo ha da essere, sia almeno un poeta».  Io allora non capivo, sentendomi da lettore tanto attratto dalla narrativa specie quella russa. Da aspirante traduttore, lo capisco molto di più...

D.  Giornata traduttiva

R. Purtroppo non ho una giornata traduttiva. Ritaglio spicchi di tempo dal lavoro e dalla famiglia. In genere la sera, quando le luci si spengono, tranne quella del mio portatile.

D. Rapporto con l'autore tradotto

R. Alcuni autori che ho tradotto o che sarei in procinto di tradurre, non ci sono più. Con i due che sto traducendo adesso, sono invece in contatto. I rapporti sono diversi, perché molto diversi sono gli autori. Uno è il maggiore poeta lettone vivente, Imants Ziedonis, e il solo incontrarlo mi ha reso talmente onorato e felice. Difficile per le sua età e le condizioni di salute approfondire più di tanto conoscenza e relazioni. Con l'altra autrice che sto traducendo, Andra Manfelde, giovane poetessa e scrittrice, il rapporto è molto più stretto e regolare. Interessante per me è riuscire a entrare nella sua idea dell'opera, confrontarmi più che su singoli passaggi della traduzione, sulla natura complessiva del suo lavoro. È la parte più interessante e stimolante del lavoro, leggerla e farmi attraversare dalla sua voce, per poi lasciarle usare la mia e pronunciare le sue parole in una lingua nuova.


D. Cibliste ou sourcier/ère (ma anche sorcier/sorcière)?
Vale a dire : privilegi la lingua d’arrivo oppure quella di partenza?

R. La mia tendenza sarebbe quella di privilegiare la lingua d'arrivo. Sicché, a volte, per paura di lasciarmi andare, resto per paradosso troppo attaccato alla traduzione letterale.

D. Qual è il sale/pepe che ti rende unico come traduttore?

R. La lingua da cui traduco. Quando parlo con qualche editore, e dico che sono un traduttore dal lettone, la faccia del mio interlocutore è sempre sorpresa: «Ah, traduttore dal lèttone! Mai conosciuto uno prima».  A parte questo, non saprei cos'altro. Forse l'emozione che talvolta riesco a trasferire, dal mio leggere al mio tradurre, in un verso, o in una frase.


D. Una gioia

R. Aver potuto incontrare Imants Ziedonis. E il torsolo di mela che mi sono portato via da casa sua.

D. Una delusione

R. Non poter vivere nel Paese dalla cui lingua traduco.


D.  Qual è il fine che persegui quando traduci?

R. Sentirmi cittadino della Lettonia. La possibilità di scegliermi una patria di adozione. Poi sì, certo, anche poter dare voce ad una letteratura da noi sconosciuta.


D. Pensiero libero (lascia, se vuoi, un tuo sassolino-pensiero)

Restare dietro le quinte è una cosa che mi è sempre piaciuta. Far girare una macchina, nascondendosi dentro gli ingranaggi. Far capolino dietro alla tenda del palcoscenico, e godersi da lì la bellezza dell'arte, della poesia. Ospitare un quadro prezioso nella propria piccola bottega giusto il tempo di costruirgli intorno una cornice dignitosa e appropriata. Ecco, tutto qui.


25 dicembre 2011, giorno di natale.


[1] Significa: «pesanti e robuste».

martedì 13 dicembre 2011

La Fille aux yeux d'or: tradurre un mostro sacro

Per i miei studenti specialisti di italiano in L3.
BALZAC, simplement. 
IL TESTO ORIGINALE FRANCESE 
È IN FONDO ALLA PAGINA



Delacroix - La Femme caressant son perroquet (1827)


Ah, mio caro, fisicamente parlando, la sconosciuta è la persona più adorabilmente femmina[1] che abbia mai incontrato. Appartiene a quella genìa[2] femminile che gli antichi romani[3] chiamavano fulva, flava, la donna di fuoco. D’acchito, quel che mi ha più colpito, per cui sono ancora pazzo d’amore, sono [quei] due occhi gialli come quelli delle tigri, un giallo oro che brilla, oro vivo, oro pensante, oro che ama e vuole assolutamente venire nel taschino del tuo gilè[4]!
Mio caro, la conosciamo bene!, esclamò Paul. Qualche volta viene qui, è la Fanciulla dagli occhi d’oro. Le abbiamo dato quel nome. È una personcina di circa ventidue anni che ho visto qui quando vi erano i Borboni, ma in compagnia di[5] una donna che vale centomila volte più di lei.
Taci, Paul! È impossibile a qualunque donna superare questa fanciulla simile a una gatta che voglia venire a  strusciarsi[6] alle gambe, una fanciulla lattescente[7] dai capelli color della cenere, delicata all’apparenza ma che deve avere dei fili lanuginosi[8] sulla terza falange delle dita; e lungo le guance una peluria bianca la cui linea, luminosa in una bella giornata, inizia dalle orecchie e si perde nella scollatura[9].
Ah, l’altra, caro il mio de Marsay. Ha degli occhi neri che non hanno mai pianto ma che bruciano; sopracciglia corvine[10] che si congiungono e le danno un aspetto duro smentito dal reticolato a piegoline[11] delle sue labbra, sulle quali un bacio non si sofferma, labbra ardenti e fresche; un incarnato moresco al quale un uomo si scalda come al sole, ma, parola d’onore, ti assomiglia…
La lusinghi!
Una schiena sinuosa, la statura slanciata di una corvetta costruita per correre e che si precipita sul vascello mercantile con un’impetuosità (tutta) francese, mordendolo e affondandolo in quattro e quattr’otto.
Ma insomma, mio caro, che vuoi che m'importi di quella che non ho affatto visto!, riprese de Marsay. Dacché studio le donne, la mia sconosciuta è la sola il cui seno vergine, le forme ardenti e voluttuose mi abbiano[12] disegnato[13] la sola donna che io abbia mai sognato[14]! Ella è l’originale d’un dipinto delirante dal titolo Donna che accarezza la sua chimera, la più calda, la più infernale ispirazione del genio antico; una santa poesia prostituita da coloro che l’hanno copiata per gli affreschi e i mosaici; per un mucchio di borghesi che in questo cameo vedono solo pendaglio[15] e l’aggiungono alle loro chiavi di orologio, mentre invece[16] è tutta la donna, un abisso di piaceri in cui rotolarsi senza fine[17], mentre invece è una donna ideale che talvolta si vede, nella realtà, in Spagna, in Italia, quasi mai in Francia. Ebbene, questa fanciulla dagli occhi d’oro l’ho rivista, questa donna che accarezza la sua chimera, l’ho rivista qui, venerdì.
H. de Balzac, La fanciulla dagli occhi d’oro (1835)
Traduzione originale di Jacqueline Spaccini




[1] Qui si parla di sensi, di una donna di rango inferiore, la si assimilerà agli animali. Opto per *femmina* come a dire donna-donna, sensualmente e sessualmente parlando.
[2] *specie*, *razza*, *varietà*.
[3] In italiano, non si mette la maiuscola ai nomi che indicano l’appartenenza geografica o storico-geografica. Per distinguere i *romani* di oggi da quelli dell’antichità, si dice generalmente *gli antichi romani*. I non italiani dicono *Latini*.
[4] *panciotto*.
[5][5] È scritto *avec* (= con). Ma *in compagnia di*  è indubbiamente  più elegante e «fa » più XIXe siècle.
[6] Lett. *sfiorare*, ma di un gatto si dice *strusciarsi*, *strofinarsi* (a/contro).
[7] Lett. *bianca*, ma ormai una pelle bianca si contrappone a nera e sta a indicare l’origine europea, caucasica. Ecco perché ho preferito *lattescente* che contiene il colore bianco (latte) e il complimento insito.
[8] Da quello che ho capito, l’autore mette in bocca al suo sciocco e arrogante de Marsay parole che dovrebbero rivelare la natura fisica della giovane donna. Che vuol dire avere dei fili  lanuginosi alle dita? Che la persona ha le dita pelose, probabilmente. Notare che in italiano si preferisce la lana (lanuginoso) al cotone (cotonneux).
[9] Col non può essere tradotto collo (= cou). In alternativa: *scollo* (ma in genere richiede un di/del/della che lo segue).
[10] Per non ripetere *nero*.
[11] A pieghe, pieghettato, etc.
[12] È la sola che… + congiuntivo.
[13] *Realizzato* è moderno e americanizzante, qui.
[14] Che io mi sia  mai sognato (sognarsi qualcuno, COD).
[15] *ninnolo*.
[16] Ho aggiunto *invece* che non c’è nel testo, per dare forza a quel *mentre* che è abbastanza debole da solo per restituire *tandis que*.
[17] Senza mai fermarsi, senza fermarsi mai.

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TESTO ORIGINALE

Ah ! mon cher, physiquement parlant, l'inconnue est la personne la plus adorablement femme que j'aie jamais rencontrée. Elle appartient à cette variété féminine que les Romains nommaient fulva, flava, la femme de feu. Et d'abord, ce qui m'a le plus frappé, ce dont je suis encore épris, ce sont deux yeux jaunes comme ceux des tigres, un jaune d'or qui brille, de l'or vivant, de l'or qui pense, de l'or qui aime et veut absolument venir dans votre gousset !
-- Nous ne connaissons que ca, mon cher ! s'écria Paul. Elle vient quelquefois ici, c'est la Fille aux yeux d'or. Nous lui avons donné ce nom-là. C'est une jeune personne d'environ vingt-deux ans, et que j'ai vue ici quand les Bourbons y étaient, mais avec une femme qui vaut cent mille fois mieux qu'elle.
-- Tais-toi, Paul ! Il est impossible à quelque femme que ce soit, de surpasser cette fille semblable à une chatte qui veut venir frôler vos jambes, une fille blanche à cheveux cendrés, délicate en apparence, mais qui doit avoir des fils cotonneux sur la troisième phalange de ses doigts ; et le long des joues un duvet blanc dont la ligne, lumineuse par un beau jour, commence aux oreilles et se perd sur le col.
-- Ah ! l'autre ! mon cher de Marsay. Elle vous a des yeux noirs qui n'ont jamais pleuré, mais qui brûlent ; des sourcils noirs qui se rejoignent et lui donnent un air de dureté démentie par le réseau plissé de ses lèvres, sur lesquelles un baiser ne reste pas, des lèvres ardentes et fraîches ; un teint mauresque auquel un homme se chauffe comme au soleil ; mais, ma parole d'honneur, elle te ressemble...
-- Tu la flattes !
-- Une taille cambrée, la taille élancée d'une corvette construite pour faire la course, et qui se rue sur le vaisseau marchand avec une impétuosité française, le mord et le coule bas en deux temps.
-- Enfin, mon cher, que me fait celle que je n'ai point vue ! reprit de Marsay. Depuis que j'étudie les femmes, mon inconnue est la seule dont le sein vierge, les formes ardentes et voluptueuses m'aient réalisé la seule femme que j'aie rêvée, moi ! Elle est l'original de la délirante peinture, appelée la femme caressant sa chimère, la plus chaude, la plus infernale inspiration du génie antique ; une sainte poésie prostituée par ceux qui l'ont copiée pour les fresques et les mosaïques ; pour un tas de bourgeois qui ne voient dans ce camée qu'une breloque, et la mettent à leurs clefs de montre, tandis que c'est toute la femme, un abîme de plaisirs où l'on roule sans en trouver la fin, tandis que c'est une femme idéale qui se voit quelquefois en réalité dans l'Espagne, dans l'Italie, presque jamais en France. Hé ! bien, j'ai revu cette fille aux yeux d'or, cette femme caressant sa chimère, je l'ai revue ici, vendredi.
H. de Balzac, La Fille aux yeux d’or (1835)

domenica 11 dicembre 2011

Puskin in una citazione di George Steiner

Traduco un breve passaggio di una bella intervista allo scrittore, teorico della traduzione, saggista, filosofo (e chi più ne ha, più ne metta) George Steiner (1) pubblicata questa settimana, nel n° 3230 di Télérama:

Aleksandr Sergeevič Puškin

Lei non si considera un creatore?

No, non bisogna confondere i ruoli. Persino il critico, il commentatore, l'esegeta più bravo è lontano anni luce dal creatore.  
Puškin diceva: «Ti ringrazio traduttore mio, grazie a te, mio editore, e ringrazio te, mio critico: voi recapitate le mie lettere, ma sono io che le scrivo». 
Anch'io recapito la posta (2).
 * * * 

Une fois n'est pas coutume (almeno secondo me), eccovi un  esempio  di traduzione cosiddetta cibliste, che va cioè a vantaggio della lingua cible (= bersaglio),  la lingua di destinazione (in questo caso l'italiano). 




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(1) Per sapere qualcosa di più su George Steiner, clicca qui.

(2) Vous ne vous considérez pas comme un créateur ?
Non, il ne faut pas confondre les fonctions. Même le critique, le commentateur, l'exégète le plus doué est à des années-lumière du créateur. Pouchkine disait : « Merci mon traducteur, merci mon éditeur, merci mon critique, vous portez mes lettres, c'est moi qui les écris ». Moi aussi, je porte le courrier. [Télérama n° 3230 du 10 au 16 décembre 2011, « Le penseur George Steiner - entretien », p. 20]