mercoledì 2 maggio 2012

Tradurre da una lingua seconda (francese anziché inglese)


PAUL AUSTER il viaggio di Anna Blume et alia

dipinto di Alice Nieri foto ©JSpaccini


Premessa
Non è stato facile, questo libro (in italiano: Nel paese delle ultime cose). L'ho dovuto riprendere in mano tre volte, per entrarci dentro.
Iniziavo, leggevo le prime righe e qualcosa in esso mi respingeva.
Complice forse la copertina della versione francese (il titolo originale è In the Country of Last Things), sentivo che mi attendeva qualcosa di forte, di ostico, qualcosa che richiedeva ben più dell'amorevole attenzione cui dedico alla lettura.


Frettolosamente, dicevo: Non mi prende, stavolta, Paul Auster .

Ma poi, a distanza di qualche mese mi imponevo di riaprire le pagine di questo romanzo: Non è possibile. Non può NON piacermi. Amo tutto, di Auster...


Hopper




Ho preso una scorciatoia dell'intelletto. Ho deciso di leggerlo come se dovessi tradurlo in italiano. E il primo incanto s'è sciolto come un grappolo d'uva moscato in bocca: le parole. Curate, precise, per nulla arzigogolate. Parole che non lasciavano scelta: prendere o lasciare. Auster non giocava con la metaletteratura com'era solito fare; non faceva il verso compiaciuto a se stesso dell'estrema sua intellettualità.

Questa Anna Blume, a dire il vero, non è per nulla simpatica. E la quasi totale assenza di dialoghi (il romanzo è narrato sotto forma di diario su un improvvisato quadernetto destinato a un suo ex amore ancora nel suo cuore - a noi lettori -) all'inizio infastidisce.

Ma è nella crudezza del taglio semantico, nella totale riluttanza a commuoverci che sta la carta vincente di questo anomalo romanzo. All'inizio ci si chiede se non ci si debba attendere la rivelazione di un Paese nascosto, qualcosa da scrostare dietro la storiella del Paese senza nome in cui vive prigioniera Anna: sarà la rappresentazione dell'URSS staliniana? O forse un qualunque Stato ove governi dittatoriali si avvicendano affamando i loro cittadini? Tutto è surreale? Una fiaba amara? Fantapolitica? Esse est percipi, alla Berkeley? Nulla è esistito se svanisce?


Macché, macché. Non ha nessuna importanza tutto ciò.
Che questa storia sia nata da un evento reale o da un incubo austeriano, quel che conta è Altrove.
E' nell'essenza stessa dell'umano esistere. E delle relazioni terrene.
E' una sorta di ipotesi ragionata sull'homo hominis lupus: in un Paese in cui si uccide per una crosta di pane e che quando il pane non c'è più, si mangiano topi con ancora i peli addosso e quando anche i topi vengono meno si smembrano corpi umani che non sono ancora cadaveri, c'è ancora posto per la filosofia, l'amore, l'Idea?

foto prelevata dal blog hopersoiltreno.blogspot.com
Si può restare uomini e donne degni di questo nome?

Se no, che cosa si diventa? L'abisso ha una fine o è incalcolabile?
E se, invece, a dispetto di ogni logica, c'è spazio per un sì, come avviene ciò - e soprattutto attraverso quale forza eversiva, tale da superare la insopprimibile prepotenza della fame e dell'abbrutimento, la sopraffazione prevaricatrice della sopravvivenza (nel romanzo ci sono anche le sette suicide, ma non anticipo troppo) -?

Il romanzo ha una trama forte, spiazzante, ma perfettamente coerente. Ad Anna si affiancheranno numerosi compagni di viaggio (la maggior parte di essi si perderà per strada): Isabella, Sam, Victoria, Boris, Willy, Bogat, Ferdinand (notate l'eterogeneità dei nomi. Attraverso di loro, Auster abbraccia lingue e Paesi a noi noti). E' un mondo in cui i libri sono buoni per riscaldare e vanno bene per il braciere, tanto vi fa freddo.

Ma nonostante tutto, sopravvivono solo coloro che coltivano una speranza: quella di andarsene, ma anche quella di sentire di non appartenere a nessun luogo.

Rouault I tre clowns
In un passaggio del libro, Anna dice di Boris Stepanovich: "assumeva il ruolo del clown, del brigante e del filosofo, ma più lo conoscevo, più percepivo tali ruoli come aspetti di un'unica personalità che sfruttava le sue svariate armi nel tentativo di riportarmi alla vita. Siamo diventati cari amici, e verso Boris conservo un debito grande per la sua compassione, per gli attacchi obliqui e persistenti che lanciava contro i bastioni della mia tristezza" (traduco all'impronta).

Oppure, altrove: "Era come essere un confessore, diceva [Sam, n.d.r.], e poco a poco si è messo a misurare tutto il bene che si fa quando si permette alla gente di sfogarsi - quel salutare effetto di pronunciare le parole, di lasciarle uscire. Parole che raccontano quel che è successo a ciascuno di noi. [...] Farsi passare per un dottore gli aveva improvvisamente dato accesso ai pensieri intimi degli altri, e questi pensieri cominciavano ora a far parte di lui. Il suo mondo interiore è diventato più vasto [...]".

La speranza fa ripartire. Anche se tutto non è null'altro che illusione.

La fine è solo immaginaria, una destinazione che inventi per continuare ad andare avanti, ma arriva il momento in cui ti rendi conto che non ce la farai mai. Può darsi che tu sia costretto a fermarti, ma allora sarà perché hai poco tempo davanti a te. Ti fermi, ma questo non significa che sei arrivato fino in fondo.E il romanzo non finisce qui. Non con questa frase finale.



martedì 1 maggio 2012

Traduzione di poesia francese (Sables di G. Le Meur)

Le Sabbie di Gérard Le Meur

GÉRARD LE MEUR

 

SABBIE (1)

PREFAZIONE DI PREDRAG MATVEJEVIĆ

Ho incontrato, e riconosciuto, Gérard Le Meur. Perché non so, ma Gérard è uno che riconosci in mezzo agli altri. Non saprei nemmeno riuscire a raccontare la sua vita o riassumere quel che ha scritto. Una volta mi capitò sotto mano qualche frammento, raccolto alla bell’e meglio in un vecchio quaderno, annerito da una grafia finissima, quasi indecifrabile. Dopo, decisi di andarlo a trovare. Ma era profondamente malato.
Viveva (e vive ancora) in uno dei più modesti quartieri periferici di Parigi, di quelli che non conosceranno riabilitazione (se non tra vent’anni); stretto in uno spazio angusto, una monocamera da condividere con la compagna. Un po’ a casaccio, un po’ dappertutto, mucchietti di libri d’ogni genere (poesia, per lo più) a ingombrare ripiani e un tavolino. Accanto, oggetti di prima necessità, un divano, la piastra elettrica, lo scaldabagno, un lavandino…
Lo incontro nuovamente, mi dice di stare “meglio del solito”. Ha deciso (lo farà?) di non prendere più “quelle medicine che asfissiano”, di limitare al minimo necessario le visite dal medico, di voler evitare l’andirivieni con l’adiacente ospedale; persino “i lunghi soggiorni”. E’ concentrato e dispersivo insieme, colto o ignorante a richiesta, ora delicato ora sprezzante (soprattutto nei confronti di se stesso). Parla a voce bassa e talvolta il fiato si perde in un mormorio sommesso, biascicato, è lui stesso a definirli “mormorii d’una vita dimenticata”, “sabbie”, “silenzi”. Potevo immaginare la seconda vita di un Hölderlin.
In quest’occasione, parliamo, tra l’altro, di Nerval e del suo “attraversamento dell’Acheronte” – Gérard completa, con precisione perfetta, i versi del Desdichado, confusi nella mia memoria. Fa un cenno di consenso con la testa, quando leggendo i suoi poemi, avanzo ipotesi geopsicologiche e similitudini letterarie: tra un Rimbaud che insegue le sue “penisole al largo” e un Artaud che si libera dalla “crudeltà” del suo teatro quotidiano. Mi sembra più prossimo al primo per le sue derive, al secondo per il comune destino. Una vita da recluso in cui uscire di casa equivale quasi ad una scappatella: “In tutta la mia vita, sono andato una sola volta all’île de la Cité…”
Gérard Le Meur ha cinquant’anni (è nato a Parigi nel 1948, da padre bretone e madre parigina). Scrive “da sempre”. Forse iniziò, chissà dove e come, “ancor prima di nascere”. Quando lo cito, sorride. E d’improvviso si apre, proprio mentre gli parlo di certi suoi poemi, del modo secondo il quale intendo sceglierli. “Lascia pure perdere quel che ho potuto scrivere sotto effetto degli psicofarmaci – mi interrompe – te l’ho detto, asfissiano”. Gli mostro il testo della scelta fatta, già stampata. Lo scorre rapidamente, abbozzando un gesto di benedizione (poi mi ricorda che lui non è affatto credente, semmai anarchico, forse).
La donna che siede accanto a noi ha legato la sua vita a quella di questo bretone. Il destino stesso (se Gérard mi passa il termine) li ha uniti. Anche lei è fragile, vulnerabile, improvvisamente allegra e poi di nuovo ansiosa. Non dimenticherò la limpidezza adolescente del suo sguardo, la voce di cristallo, i lineamenti delicati del suo volto. Il suo nome, Selma, viene da lontano, dai suoi antenati bosniaci; la sua lingua materna è il francese – un francese straordinariamente puro. Se parlo qui di lei è perché è parte integrante della poesia di Gérard; anzi, lei è quella parte di poesia che si concede alla speranza, che impedisce l’approssimarsi definitivo dell’oscurità nichilista e disperante. “Ci siamo spartiti la sofferenza”, dice in sordina uno dei versi della raccolta.
Gérard accetterà, non senza stupore, la pubblicazione di una selezione dei suoi scritti. Ora sono molto lieto di poterne rileggere qualche frammento nella traduzione italiana, qui, nelle pagine di Linea d’ombra.
Ho voglia di rivedere lui e Selma. In qualche modo, la pubblicazione di questi versi un anno fa e, oggi, questa prima traduzione portano alla loro vita comune un piccolo segno di riconoscimento, giustifica e riassume nel contempo il male e la fiducia. Riconforta e salva dall’oblio, quello definitivo, visto che, se all’interno del suo ospedale psichiatrico, Gérard si rende ancora conto del cambio delle stagioni e del passaggio dal giorno alla notte, non è però più in grado di dire in quale mese dell’anno siamo, né che ore sono.
Non mi capita spesso di scrivere delle prefazioni così. D’altronde, non so se l’abbia mai fatto con altrettanta convinzione e complicità.
Roma-Parigi, maggio 1998
(traduzione dal francese di Jacqueline Spaccini)
da Sables:

VIII

Alla memoria di Patrice, anarchico
Morto adolescente
Il tiglio e l'edera rampicante
A crepitare nella pelle
Gli occhi straboccanti di febbre


Io ti chiamo così
Sogno di sangue e di memoria
Piangono il cielo e quel che vi è sopra
Fratello per la morte e per l’oblio.
Vieni tranquillo
Inutile ardore
A calmare l’urlo
Di colui che ti onora
Il fuoco che fu portato sulla terra
Provengono brividi dal vittimario
Ancora ossessionano lo spazio
E in questa notte senza traccia
Ti addormentasti per le città e anche
Per l’universo che sovrasta l’universo
Ombra e sarcasmo senza limiti
T’aspetta dunque il fanciullo
Che fisserà il suo mondo
E con un dito quest’universo
Sconvolgerà.

XV

Testamento
Quando la morte avrà preso la mia parte d’ombra
I vetri verranno chiusi dalle rose
Come il sale alla sabbia si confonde
Come il vinco alle dita si lega
Dirò addio a Lazzaro
Nell’attesa di te le mie labbra saranno
Per tutto il tempo che occorrerà
E ti accoglierò per un nuovo sogno,
Un corpo abitato dalle macerie
Della notte.
XXXIV
Non vedo che il buio lentamente agitarsi,
E l’alba che si leva dopo una notte di esilio
Si rovescia al crepuscolo il battello d’abete
La terra è rivoltata dallo sguardo dei morti
O notte aperta offri i tuoi occhi
Ai chiarori della mia mente
Parla a codesta testa avvolta nel drappo del lutto
(Per nascondervi le lacrime)
Acropoli ha distrutto il sole di mezzanotte
E il ghiaccio col suo mistero
E l’aurora col suo frutto
Ecco appressarsi il tempo della menzogna
E del sogno ove l’oblio come arcobaleno dorme
Sulle Ande su cui cantava il continente di fuoco
Ferruginosa terra in preda alla tormenta
Tu che avesti le mani bianche
Giovinetta di anche
Sento il mio cuore spezzato
Dalla vita sconfessato.
XLIII
La notte ti restituirò e l’autunno e settembre
Zuppi di sale e glicini i tetti
Ecco che tornavano gli uccelli
Per questi inseguiti cieli
Salivano altre colline
Le tre rose del libro avrà ucciso l’estate
Vi appassivano le foglie ingiallite dell’erbario
Senza viso né fiato e senza selce da ascoltare
A trappole assomigliano i sognatori di stasera
Attorno a me restano cosa incerta i rumori
Il resto del poema divoreranno gli uccelli.
XLVI
Le lettere del vespro e
Quelle del mattino
Del vespro che soffoca e si spenge
Stanchezza del lavoro addormentato
Sotto la carta assorbente vicino al gelsomino
Il cui filare fa da cammino
Del mattino dall’eterna erbetta
La fuga delle strade
Crocevia alle (com)piante (2)
La corsa dove il respiro come
Un arco si tende
Corpo ove le nubi si addensano
Presso un fumo aspro
Di città in cui i battelli
Scaricano l’aria di un cielo
Senza prigione né dolore.
LIV
Di lontano, dal cielo che si illumina
Di certo non ci si batte per la pioggia
Né per i rami frondosi
E nemmeno per l’acqua dei baci passeggera
L’aridità della gola
Delle infinite estati del vento
Il morso che t’offro
Più a nessuno servirà
Si richiude la porta su di noi
Nell’ora in cui tacciono gli usignoli
Sigillo son rimaste le tue labbra
– Dai tuoi ai miei –
forgiando un’identica assenza
I tuoi occhi rovesciati dal cielo
Fuggono lo sguardo assente e vuoto
guarda, gli uccelli ti abbandonano.

LV
Quando cessa il tempo d’amare
La luce soffia la speranza
E il ricordo del verbo
Porta la nuova primavera.
(traduzione dal francese di Jacqueline Spaccini)

Parigi, agosto 1998
____________________
Pubblicato da Linea d'ombra. Milano, n°136, settembre 1998, pp.42-45



(1) Sables, poèmes. L’Esprit des Péninsules, 1997, pagine non numerate.
(2) Il gioco di parole in francese era tra plantes (piante) et plaintes (lamenti). Tradurre letteralmente avrebbe fatto perdere l’effetto congiunto dato dai significanti e significati (N.d.T.).

Se ne vanno (Odlaze) - traduzione poetica


SE NE VANNO
(traduzione dal croato di Jacqueline Spaccini)

ODLAZE

di

BORIS MARUNA


 

Se ne vanno, se ne vanno tutti!
Vanno vanno vanno
E non ci sono più
Li vedo di giorno in giorno
Di anno in anno
In luoghi diversi: nelle piazze, le vie, i villaggi lungo il fiume
Se ne vanno in varie circostanze
Se ne vanno e per ciò tu non puoi essergli d’aiuto
Se ne va il nanetto e porta appresso la moglie nanetta
Se ne va l’uomo accasato alla donna sbagliata
Se ne va la donna maritata all’uomo giusto
Se ne va il paladino dell’ordine soprannaturale delle cose
Se ne va l’ala destra dell’Hajduk
Se ne va la promessa della corale
Se ne va l’amore mio
Se ne va il cervello più brillante dell’amministrazione comunale
Se ne va lo stomatologo noto
Se ne va il noto ruffiano
Se ne va l’intera delegazione del popolo lavoratore
Se ne va il popolo lavoratore
Se ne va l’uomo di una volta senza passato
Se ne va l’uomo senza futuro
Se ne va mia madre
Se ne va il fedele della falsa religione
Se ne va la fede nel risanamento
Se ne va la religione
Se ne va l’impiegato incravattato
Se ne va lo scrittore di romanzi porno
Se ne va la sua musa in mutandine rosse
Se ne va la filippina con la quale passai la notte
Tra il 3 e il 4 giugno del 1969
Se ne va l’erede di tutto un impero
Se ne va il carburatore della nera Mercedes
Se ne vanno tutti
Se ne vanno di giorno e di notte e di notte e di notte e di nuovo di giorno
Se ne vanno sotto la pioggia, la neve, sotto un caldo cocente e sotto la nera notte
Se ne vanno senza tornare, senza nulla lasciare né possibilità di revocare
Se ne vanno seguendo il ritmo musicale delle fanfare
Se ne vanno col gemere sommesso del vento, con l’urlo aguzzo della bora sul mare
Se ne vanno comunque, cercando di dimenticare in tutti i modi possibili
Che se ne vanno
Ma se ne vanno
Sotto terra
La quale, come una vecchia puttana,
Avanza allargando le gambe
Per far loro più posto.

da: Bilo je lakše voljeti te iz daljine
(Amarti da lontano era più facile)

Zagabria, Matica Hrvatska, 1996
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Pubblicato da Il Segnale, n. 52, ottobre 1998