domenica 1 luglio 2012

I TRADUTTORI... TRADOTTI/3


Continua la serie di interviste ai traduttori. Come già scritto, il titolo della serie gioca sul secondo significato di tradotti. Quante volte avete letto: «venne arrestato e tradotto in catene innanzi al giudice»?  Tradotto, cioè condotto. E dunque stavolta tocca a...


photo by franceculture.fr
* * *

COGNOME Martella

NOME Marco

LINGUA/E Francese, inglese e Italiano

LUOGO Parigi, Francia

D. Italiano per nascita e cultura, francese «di suolo» da oltre vent'anni, giunto a Parigi con una laurea in lingua e letteratura inglese in tasca.
Posso chiederle come nasce il suo lavoro di traduttore e se è il suo lavoro effettivo?

R. Sono stato traduttore per alcuni anni, effettivamente, ma lavoravo più nel campo del cinema e degli adattamenti. Da qualche anno a questa parte sono ufficialmente historien des jardins.  

D. Se non sbaglio ha anche un master di giardino storico, patrimonio e paesaggio...

R. Sì. Comunque, prima di «immergermi» nel folto mondo dei giardini, ricominciando a studiare e iscrivendomi all'École d'Architecture de Versailles, dove appunto ho conseguito il master, ho lavorato per alcuni anni nel mondo della traduzione come «adattatore».

D. Vuole spiegare meglio che  traduttore è un adattatore?

R. In poche parole, scrivevo i sottotitoli di film, perlopiù classici del cinema francese o americano, in italiano. 

D. Ha fatto anche traduzioni letterarie e/o meramente tecniche?

R. Di tutto un po'. Però diciamo che ho raramente lavorato come traduttore letterario. Quando l'ho fatto, si trattava di testi di poeti francesi per riviste di letteratura italiane.

D. E le piaceva?

R. Non posso dire di essere stato un traduttore «felice». Ho sempre trovato la posizione del traduttore molto scomoda, se non impossibile da tenere, essendo un ruolo di tramite tra due culture, necessario e nobile, che presuppone una grande generosità, un'apertura di spirito e una disponibilità che forse non ho.

D. Dunque non è un traduttore prettamente (unicamente) letterario, bensì a largo raggio.  Recentemente, lei ha vinto alcuni prestigiosi premi per la traduzione di un'opera che parla di giardini (Le Jardin perdu). Quest'opera, pubblicata in francese è stata recentemente tradotta anche in italiano. 
Mi scusi ma non le sembra un po' paradossale il fatto che lei, italiano, presenti in traduzione francese un testo inglese e che poi la successiva traduzione italiana non sia a sua cura?

R. No, non poi tanto paradossale. (Risatina)

Qual è stato lo scoglio maggiore di questo suo lavoro? Lo stile? La lingua in sé?

John Keats
R. La difficoltà sta proprio in questo essere « entre deux langues » (tra due lingue). Se anche dovessi trascorrere il resto della mia vita in Francia, il francese non diventerà mai la mia lingua. Non si tratta di padroneggiare o meno una lingua, bensì di «appartenere» a una lingua. Questo avviene solo - credo - con la propria lingua madre, quella che si impara insieme alla realtà, alla vita stessa.

D. E tuttavia, da tempo, lei scrive fluentemente (potrei aggiungere meglio di moltissimi «autoctoni») in francese...

R. Secondo Keats, la poesia deve nascere come le foglie da un ramo. Secondo me, una lingua ci deve essere perfettamente familiare (appunto come una madre), dev'essere insomma qualcosa di estremamente naturale, e tuttavia è vero che paradossalmente mi sono ritrovato a tentare un percorso diverso. 

D. Veramente non sono del tutto d'accordo con la concezione della poesia secondo Keats (al quale peraltro lei assomiglia tantissimo), ma mi parli dei suoi testi e di questo libro in particolare, perché lascia intendere altro...


Ile verte
Non saprei dire come sia avvenuto, ma in questi ultimi anni, lavorando come storico dei giardini, ho iniziato 
a usare il francese per scrivere articoli per la stampa specializzata e libriccini sulla storia di alcuni giardini in cui ho avuto la fortuna di lavorare, come l'Ile verte a Châtenay-Malabry o il Petit parc di Sceaux. Avevo iniziato a scrivere un saggio in italiano, ma senza troppa convinzione, e poi a un tratto mi sono accorto che la scrittura proseguiva in francese e tutto diventava più fluido, più convincente, perlomeno ai miei occhi... 


D. Ed è allora che entra in gioco l'oscuro filosofo giardiniere di origini islandesi, Jorn de Précy? 


R. Sì. Lui ha preso la parola in mia vece.

D. Per questo libro, lei è stato premiato inizialmente come traduttore e in seguito come autore. Vuol spiegare l'arcano?

R. L'arcano lo si capisce alla fine del libro, nella Nota dell'editore, laddove si suggerisce che l'autore del saggio Le Jardin Perdu, Jorn de Précy, forse non è mai esistito e che il traduttore potrebbe in realtà essere l'autore.

D'altronde, non è il primo a ricorrervi. Basterà ricordare il caso Boris Vian/Vernon  Sullivan

A questo punto il Marco Martella traduttore cede il passo allo scrittore. L'argomento traduttore/autore verrà approfondito nel mio blog letterario (clicca qui). Lì tireremo le somme dello strano caso (ma neanche tanto) di un traduttore che si fa autore. 

Per l'intanto, grazie, Marco Martella.

Saint-Loup-de-Naud, 30/06/2012


















sabato 9 giugno 2012

Dal francese all'italiano. Come cambia una poesia: spostamenti

Esercizio. Si prenda una poesia contemporanea da un sito web come Poésie française (clicca qui) e la si traduca. Scelgo Mise en scène di Michèle Corti.
Si tratta di un poema che ricorre alle classiche figure retoriche e di stile: metonimia/sineddoche/analogia/metafora... una poesia, insomma, dotata di un forte linguaggio figurato e per ciò stesso molto visiva. Il verbo è tutto al futuro come fosse vagheggiamento, sogno. La  natura è protagonista prepotente ben più degli esseri umani. Ognuno ha un suo posto. Non a caso, il titolo della poesia di Michèle Corti (che non conosco) è Mise en scène (che poi è la messa in scena nel senso di *allestimento/regia teatrale*). Per dare maggiore efficacia alla traduzione, lasceremo il titolo in originale (come si fa con certi film americani di oggi).
Se confrontiamo il testo originale con la mia traduzione qui sotto riprodotta si noterà che ci sono alcuni spostamenti (il soggetto in posizione di complemento oggetto e viceversa), nonché qualche piccolo intervento sul lessico o sulla grammatica. Tutto ciò è normalissimo: 1) in italiano (più difficile in francese) si gioca facilmente con la posizione del soggetto e del complemento oggetto (le vent ramenera le soleil), contribuendo (almeno nelle intenzioni) con l'introduzione di un'ambiguità di breve effetto (riporterà il vento il sole: è il vento che riporta il sole o il contrario?) ad aumentare la poeticità del verso. Stessa motivazione per: agg. possessivo + aggettivo qualificativo + nome (à leurs pieds impatients) riproposto con uno spostamento (sui piedi loro impazienti); 2) la neve di petali non esiste in italiano, bensì - per quanto immaginifica - la nevicata); 3) quanto alle onde/ondate di ghiaia, il verbo *déferler* sta a indicare le due azioni dell'onda (o della serie di onde) che si gonfia: essa si innalza e poi si abbatte. Letteralmente: «infrangersi schiumando approssimandosi a un ostacolo o alla riva» [Se briser en écumant à l'approche d'un obstacle, du rivage, TLFi]. Quale senso vogliamo privilegiare? Si conta: déferler *sur, contre, dans, vers, en*. L'autrice introduce *aux* (in realtà = * à leurs*), ma l'italiano *ai piedi* ammette *s'infrange ai piedi* ma trova cacofonico e fuorviante  *infrangendosi ai piedi* (mi viene subito in mente un atto devozionale). 
Il risultato finale nella sua versione italiana è quello proposto qui di seguito:


 

www.comune-italia.it foto di Cavenago d'Adda

Michèle Corti : Mise en scène   


Ci saranno risate
e vetri rovesciati
un brivido di seta lacerata
sul davanzale del cielo
e l’occhio tuo blu come pervinca.

Ci sarà una nevicata di petali
dalla peluria tenera
sulla gota dei bocciòli.
La pioggia giocherà a campana nei rigagnoli
e la tua mano sminuzzerà sogni
per gli uccellini appena nati.
Ci sarà lo scricchiolio delle scale
sotto le sgroppate dei bimbi
e onde di ghiaia sonora
s’infrangeranno sui piedi loro impazienti.

Riporterà il vento il sole
attraverso le crepe nelle nubi
la scena s’illuminerà
e la primavera timida ancora un poco
starnutirà in un fazzoletto
profumato alla violetta.

(trad. di Jacqueline Spaccini)

Tradurre la poesia croata (Vesna Parun)

mok.hr

Per tutto ha colpa la nostra infanzia*

Siamo cresciuti soli come piante
ed ora siamo esploratori
di contrade disertate dalla fantasia
ignorando l'obbedienza del male.

Siamo cresciuti per le strade
e con noi è cresciuta la nostra paura
degli zoccoli selvaggi che ci avrebbero schiacciati
e dei muretti dei campi che avrebbero diviso
la nostra gioventù.

Nessuno di noi ha tutte e due le braccia.
Due occhi indenni. Né un cuore
ove un grido non trovi riparo.

In noi entrava un mondo discorde,
feriva le nostre fronti
con il fragore delle sue verità omicide
ed il baccano delle stelle tardive.

Ci facciamo vecchi. E le fiabe vengono a noi
come un gregge una luce segue in lontananza.
E simili a  noi sono i nostri canti:
gravi e tristi.

(traduzione di Jacqueline Spaccini)

* Vesna Parun,  Za sve su kriva djetinjstva naša (Clicca sul titolo croato per consultare la poesia nella lingua originale)

Cfr.  Né sogno né cigno, Spring edizioni, 1999

Tradurre una poesia in rima per esprimere l'ironia (dal croato all'italiano)

[Per la riflessione traduttiva, leggi qui

Zašto je umro slon

(Vesna Parun)

 

U šumi eukaliptusa živio dobričina slon

svakome spreman da pomogne,
al mravima posebno sklon.
Žao mu bilo gledati ih, onako malene, kako se muče
i kako s golemim trudom svaki
slamčicu svoju uz brijeg vuče.
Zato je šumom gustom oprezno koračao
pazeć da slučajno ne bi
nogom na mravinjak stao,
ili da ne bi u žurbi veselom nekom mravu
nožicu zgnječio ne hoteć, il – ne daj bože – glavu!
Gledao je slon kud gazi, da ne može bolje.
Al sigurno je sigurno.
I mravi dobričinu zamole
neka hoda što manje, pod drvetom nek stoji
nepomičan, dakako, i – ako je moguće –
samo na jednoj nozi, pa bilo mu hladno il vruće.
A ako mu je dosadno – slamčice može da broji,
to je prilično zabavno; a oni, sa svoje strane
oduûit će mu se – netom prilika bude za to!
I tako na jednoj nozi poživje dobričina slon
godinu dana i više, i vecma izgladnje on.
Niti je jeo nit pio, a i spavao je kojekako –
dobričina biti, hm, nije: uvijek baš lako.
Već su mu i rebra provirila ispod kože!
Najzad i mravi uvide da tako više ne moûe
i da će stari slon od gladi naprosto umrijeti.
Tada se jedan mrav iz pristojnosti sjeti
i slonu predloži:
Samo ti, starkeljo, lezi!
Ništa se ne boj. U naš dom,
na žalost, ti ne možeš ući;
al nije lijepo da se sad pravimo Englezi
i da te samog ostavimo!
Mi ćemo slamčice vući
i mrvice, i zrnje, i obilno te hraniti.
Ta tvoji smo prijatelji, i dužnici štoviše!
Psst! – prekinu ga ostali mravi – tiše!…
Dobričina slon umire: zaklopio je oči
i, po svemu sudeći, ne čuje nas više!…
I mravi se, da ne dangube, uokolo razmiliše
za svojim svagdašnjim poslom,
iskreno ucviljeni,
i još su dugo, dugo zdravi bili i živi.
Zapravo, ako razmislimo, oni i nisu krivi
što su tako sitni, te su i usluge njihove
takoćer tako neznatne, da ne mogu golemom slonu
uzvratiti jednakom mjerom.
Slon ima surlu i kljove,
i jak je i mudar; al treba dobro da otvori oči
kad bira prijatelje, da baš ne izabere onu
najmanju pasminu mravlju, kojoj je od postanka
mjera za ovaj svijet
i za ljubav – sićušma slamka!
colorare.it

 

Versione italiana 

Perché morì l’elefante

Nella foresta di eucalipti quieto viveva un elefante,
a chiunque pronto a dar soccorso,
e verso le formiche particolarmente ben disposto.
Spiacevagli veder l’affanno che si davan le piccoline,
e con quanta fatica le pagliuzze trascinavano dalle colline.
Pertanto, avanzava nella folta foresta,
assennatamente, e con la vista lesta
a non porre imprudentemente un arto
su di un formicaio, o nella fretta
a schiacciar di graziosa formica la zampetta
né – dio non voglia – incauto, il capo!
E meglio che poté, l’elefante verso il guado guardò.
Questo è poco, ma certo.
E le formiche il pacato elefante pregarono
di restar fermo sotto un albero, a mo’ di sentiero meno erto,
e se possibile solo su una zampa, con la pioggia e il bel tempo.
Se si fosse seccato, le pagliuzze contasse: un divertimento;
per loro conto, al momento dato, il debito avrebbero saldato.
Così su di una sola zampa visse calmo l’animale per anni e più,
avvertendo però una gran fame. Senza bere né mangiare,
e dormendo in modo invero poco abile
da mite ragionare, eh, non sempre è così facile.
Ormai le costole trasparivano dalla pelle
anche le formiche, quelle, capirono di non poter seguitare:
il vecchio elefante di fame morto sarebbe a lungo andare.
Una formica allora si ricordò delle buone pose
e al pachiderma propose:
Ma coricati, dunque, vecchietto!
Di nulla non temere. Ahimè, sotto il di noi tetto
non puoi entrare; ma certo non sarebbe molto aggraziato
se ora facessimo gli Inglesi, lasciandoti solo e abbandonato.
Trasporteremo noi le pagliuzze, noi formicuzze
e a vagonetti ti nutriremo di granetti.
Siamo tuoi amici no, anzi, siam tue debitrici!
- Sshh! - l’interruppero le altre formiche - Taci!
L’elefante sereno sta morendo: orsù,
ha chiuso gli occhi e – suppergiù – non ci ascolta più!
E le formiche, per non perder tempo,
alla comune vita lavorativa ripensarono un momento:
restarono a lungo vive e vispe
ma sinceramente meste.
Invero, a ben pensare, bisogna esser malevoli
se perché piccole vogliamo farne colpevoli,
i loro servigi furono di così poca grandezza
che all’elefante in egual misura non resero la stazza.
Egli possedeva proboscide e zanna,
forza e assennatezza,
ma nella scelta degli amici
gli occhi occorre tenere vigili,
ché nella razza degli insetti per colpa forse della taglia
il mondo come l’amor –
non son più grandi di un fil di paglia.
(traduzione di Jacqueline Spaccini) 
terranauta.it

mercoledì 2 maggio 2012

Tradurre da una lingua seconda (francese anziché inglese)


PAUL AUSTER il viaggio di Anna Blume et alia

dipinto di Alice Nieri foto ©JSpaccini


Premessa
Non è stato facile, questo libro (in italiano: Nel paese delle ultime cose). L'ho dovuto riprendere in mano tre volte, per entrarci dentro.
Iniziavo, leggevo le prime righe e qualcosa in esso mi respingeva.
Complice forse la copertina della versione francese (il titolo originale è In the Country of Last Things), sentivo che mi attendeva qualcosa di forte, di ostico, qualcosa che richiedeva ben più dell'amorevole attenzione cui dedico alla lettura.


Frettolosamente, dicevo: Non mi prende, stavolta, Paul Auster .

Ma poi, a distanza di qualche mese mi imponevo di riaprire le pagine di questo romanzo: Non è possibile. Non può NON piacermi. Amo tutto, di Auster...


Hopper




Ho preso una scorciatoia dell'intelletto. Ho deciso di leggerlo come se dovessi tradurlo in italiano. E il primo incanto s'è sciolto come un grappolo d'uva moscato in bocca: le parole. Curate, precise, per nulla arzigogolate. Parole che non lasciavano scelta: prendere o lasciare. Auster non giocava con la metaletteratura com'era solito fare; non faceva il verso compiaciuto a se stesso dell'estrema sua intellettualità.

Questa Anna Blume, a dire il vero, non è per nulla simpatica. E la quasi totale assenza di dialoghi (il romanzo è narrato sotto forma di diario su un improvvisato quadernetto destinato a un suo ex amore ancora nel suo cuore - a noi lettori -) all'inizio infastidisce.

Ma è nella crudezza del taglio semantico, nella totale riluttanza a commuoverci che sta la carta vincente di questo anomalo romanzo. All'inizio ci si chiede se non ci si debba attendere la rivelazione di un Paese nascosto, qualcosa da scrostare dietro la storiella del Paese senza nome in cui vive prigioniera Anna: sarà la rappresentazione dell'URSS staliniana? O forse un qualunque Stato ove governi dittatoriali si avvicendano affamando i loro cittadini? Tutto è surreale? Una fiaba amara? Fantapolitica? Esse est percipi, alla Berkeley? Nulla è esistito se svanisce?


Macché, macché. Non ha nessuna importanza tutto ciò.
Che questa storia sia nata da un evento reale o da un incubo austeriano, quel che conta è Altrove.
E' nell'essenza stessa dell'umano esistere. E delle relazioni terrene.
E' una sorta di ipotesi ragionata sull'homo hominis lupus: in un Paese in cui si uccide per una crosta di pane e che quando il pane non c'è più, si mangiano topi con ancora i peli addosso e quando anche i topi vengono meno si smembrano corpi umani che non sono ancora cadaveri, c'è ancora posto per la filosofia, l'amore, l'Idea?

foto prelevata dal blog hopersoiltreno.blogspot.com
Si può restare uomini e donne degni di questo nome?

Se no, che cosa si diventa? L'abisso ha una fine o è incalcolabile?
E se, invece, a dispetto di ogni logica, c'è spazio per un sì, come avviene ciò - e soprattutto attraverso quale forza eversiva, tale da superare la insopprimibile prepotenza della fame e dell'abbrutimento, la sopraffazione prevaricatrice della sopravvivenza (nel romanzo ci sono anche le sette suicide, ma non anticipo troppo) -?

Il romanzo ha una trama forte, spiazzante, ma perfettamente coerente. Ad Anna si affiancheranno numerosi compagni di viaggio (la maggior parte di essi si perderà per strada): Isabella, Sam, Victoria, Boris, Willy, Bogat, Ferdinand (notate l'eterogeneità dei nomi. Attraverso di loro, Auster abbraccia lingue e Paesi a noi noti). E' un mondo in cui i libri sono buoni per riscaldare e vanno bene per il braciere, tanto vi fa freddo.

Ma nonostante tutto, sopravvivono solo coloro che coltivano una speranza: quella di andarsene, ma anche quella di sentire di non appartenere a nessun luogo.

Rouault I tre clowns
In un passaggio del libro, Anna dice di Boris Stepanovich: "assumeva il ruolo del clown, del brigante e del filosofo, ma più lo conoscevo, più percepivo tali ruoli come aspetti di un'unica personalità che sfruttava le sue svariate armi nel tentativo di riportarmi alla vita. Siamo diventati cari amici, e verso Boris conservo un debito grande per la sua compassione, per gli attacchi obliqui e persistenti che lanciava contro i bastioni della mia tristezza" (traduco all'impronta).

Oppure, altrove: "Era come essere un confessore, diceva [Sam, n.d.r.], e poco a poco si è messo a misurare tutto il bene che si fa quando si permette alla gente di sfogarsi - quel salutare effetto di pronunciare le parole, di lasciarle uscire. Parole che raccontano quel che è successo a ciascuno di noi. [...] Farsi passare per un dottore gli aveva improvvisamente dato accesso ai pensieri intimi degli altri, e questi pensieri cominciavano ora a far parte di lui. Il suo mondo interiore è diventato più vasto [...]".

La speranza fa ripartire. Anche se tutto non è null'altro che illusione.

La fine è solo immaginaria, una destinazione che inventi per continuare ad andare avanti, ma arriva il momento in cui ti rendi conto che non ce la farai mai. Può darsi che tu sia costretto a fermarti, ma allora sarà perché hai poco tempo davanti a te. Ti fermi, ma questo non significa che sei arrivato fino in fondo.E il romanzo non finisce qui. Non con questa frase finale.



martedì 1 maggio 2012

Traduzione di poesia francese (Sables di G. Le Meur)

Le Sabbie di Gérard Le Meur

GÉRARD LE MEUR

 

SABBIE (1)

PREFAZIONE DI PREDRAG MATVEJEVIĆ

Ho incontrato, e riconosciuto, Gérard Le Meur. Perché non so, ma Gérard è uno che riconosci in mezzo agli altri. Non saprei nemmeno riuscire a raccontare la sua vita o riassumere quel che ha scritto. Una volta mi capitò sotto mano qualche frammento, raccolto alla bell’e meglio in un vecchio quaderno, annerito da una grafia finissima, quasi indecifrabile. Dopo, decisi di andarlo a trovare. Ma era profondamente malato.
Viveva (e vive ancora) in uno dei più modesti quartieri periferici di Parigi, di quelli che non conosceranno riabilitazione (se non tra vent’anni); stretto in uno spazio angusto, una monocamera da condividere con la compagna. Un po’ a casaccio, un po’ dappertutto, mucchietti di libri d’ogni genere (poesia, per lo più) a ingombrare ripiani e un tavolino. Accanto, oggetti di prima necessità, un divano, la piastra elettrica, lo scaldabagno, un lavandino…
Lo incontro nuovamente, mi dice di stare “meglio del solito”. Ha deciso (lo farà?) di non prendere più “quelle medicine che asfissiano”, di limitare al minimo necessario le visite dal medico, di voler evitare l’andirivieni con l’adiacente ospedale; persino “i lunghi soggiorni”. E’ concentrato e dispersivo insieme, colto o ignorante a richiesta, ora delicato ora sprezzante (soprattutto nei confronti di se stesso). Parla a voce bassa e talvolta il fiato si perde in un mormorio sommesso, biascicato, è lui stesso a definirli “mormorii d’una vita dimenticata”, “sabbie”, “silenzi”. Potevo immaginare la seconda vita di un Hölderlin.
In quest’occasione, parliamo, tra l’altro, di Nerval e del suo “attraversamento dell’Acheronte” – Gérard completa, con precisione perfetta, i versi del Desdichado, confusi nella mia memoria. Fa un cenno di consenso con la testa, quando leggendo i suoi poemi, avanzo ipotesi geopsicologiche e similitudini letterarie: tra un Rimbaud che insegue le sue “penisole al largo” e un Artaud che si libera dalla “crudeltà” del suo teatro quotidiano. Mi sembra più prossimo al primo per le sue derive, al secondo per il comune destino. Una vita da recluso in cui uscire di casa equivale quasi ad una scappatella: “In tutta la mia vita, sono andato una sola volta all’île de la Cité…”
Gérard Le Meur ha cinquant’anni (è nato a Parigi nel 1948, da padre bretone e madre parigina). Scrive “da sempre”. Forse iniziò, chissà dove e come, “ancor prima di nascere”. Quando lo cito, sorride. E d’improvviso si apre, proprio mentre gli parlo di certi suoi poemi, del modo secondo il quale intendo sceglierli. “Lascia pure perdere quel che ho potuto scrivere sotto effetto degli psicofarmaci – mi interrompe – te l’ho detto, asfissiano”. Gli mostro il testo della scelta fatta, già stampata. Lo scorre rapidamente, abbozzando un gesto di benedizione (poi mi ricorda che lui non è affatto credente, semmai anarchico, forse).
La donna che siede accanto a noi ha legato la sua vita a quella di questo bretone. Il destino stesso (se Gérard mi passa il termine) li ha uniti. Anche lei è fragile, vulnerabile, improvvisamente allegra e poi di nuovo ansiosa. Non dimenticherò la limpidezza adolescente del suo sguardo, la voce di cristallo, i lineamenti delicati del suo volto. Il suo nome, Selma, viene da lontano, dai suoi antenati bosniaci; la sua lingua materna è il francese – un francese straordinariamente puro. Se parlo qui di lei è perché è parte integrante della poesia di Gérard; anzi, lei è quella parte di poesia che si concede alla speranza, che impedisce l’approssimarsi definitivo dell’oscurità nichilista e disperante. “Ci siamo spartiti la sofferenza”, dice in sordina uno dei versi della raccolta.
Gérard accetterà, non senza stupore, la pubblicazione di una selezione dei suoi scritti. Ora sono molto lieto di poterne rileggere qualche frammento nella traduzione italiana, qui, nelle pagine di Linea d’ombra.
Ho voglia di rivedere lui e Selma. In qualche modo, la pubblicazione di questi versi un anno fa e, oggi, questa prima traduzione portano alla loro vita comune un piccolo segno di riconoscimento, giustifica e riassume nel contempo il male e la fiducia. Riconforta e salva dall’oblio, quello definitivo, visto che, se all’interno del suo ospedale psichiatrico, Gérard si rende ancora conto del cambio delle stagioni e del passaggio dal giorno alla notte, non è però più in grado di dire in quale mese dell’anno siamo, né che ore sono.
Non mi capita spesso di scrivere delle prefazioni così. D’altronde, non so se l’abbia mai fatto con altrettanta convinzione e complicità.
Roma-Parigi, maggio 1998
(traduzione dal francese di Jacqueline Spaccini)
da Sables:

VIII

Alla memoria di Patrice, anarchico
Morto adolescente
Il tiglio e l'edera rampicante
A crepitare nella pelle
Gli occhi straboccanti di febbre


Io ti chiamo così
Sogno di sangue e di memoria
Piangono il cielo e quel che vi è sopra
Fratello per la morte e per l’oblio.
Vieni tranquillo
Inutile ardore
A calmare l’urlo
Di colui che ti onora
Il fuoco che fu portato sulla terra
Provengono brividi dal vittimario
Ancora ossessionano lo spazio
E in questa notte senza traccia
Ti addormentasti per le città e anche
Per l’universo che sovrasta l’universo
Ombra e sarcasmo senza limiti
T’aspetta dunque il fanciullo
Che fisserà il suo mondo
E con un dito quest’universo
Sconvolgerà.

XV

Testamento
Quando la morte avrà preso la mia parte d’ombra
I vetri verranno chiusi dalle rose
Come il sale alla sabbia si confonde
Come il vinco alle dita si lega
Dirò addio a Lazzaro
Nell’attesa di te le mie labbra saranno
Per tutto il tempo che occorrerà
E ti accoglierò per un nuovo sogno,
Un corpo abitato dalle macerie
Della notte.
XXXIV
Non vedo che il buio lentamente agitarsi,
E l’alba che si leva dopo una notte di esilio
Si rovescia al crepuscolo il battello d’abete
La terra è rivoltata dallo sguardo dei morti
O notte aperta offri i tuoi occhi
Ai chiarori della mia mente
Parla a codesta testa avvolta nel drappo del lutto
(Per nascondervi le lacrime)
Acropoli ha distrutto il sole di mezzanotte
E il ghiaccio col suo mistero
E l’aurora col suo frutto
Ecco appressarsi il tempo della menzogna
E del sogno ove l’oblio come arcobaleno dorme
Sulle Ande su cui cantava il continente di fuoco
Ferruginosa terra in preda alla tormenta
Tu che avesti le mani bianche
Giovinetta di anche
Sento il mio cuore spezzato
Dalla vita sconfessato.
XLIII
La notte ti restituirò e l’autunno e settembre
Zuppi di sale e glicini i tetti
Ecco che tornavano gli uccelli
Per questi inseguiti cieli
Salivano altre colline
Le tre rose del libro avrà ucciso l’estate
Vi appassivano le foglie ingiallite dell’erbario
Senza viso né fiato e senza selce da ascoltare
A trappole assomigliano i sognatori di stasera
Attorno a me restano cosa incerta i rumori
Il resto del poema divoreranno gli uccelli.
XLVI
Le lettere del vespro e
Quelle del mattino
Del vespro che soffoca e si spenge
Stanchezza del lavoro addormentato
Sotto la carta assorbente vicino al gelsomino
Il cui filare fa da cammino
Del mattino dall’eterna erbetta
La fuga delle strade
Crocevia alle (com)piante (2)
La corsa dove il respiro come
Un arco si tende
Corpo ove le nubi si addensano
Presso un fumo aspro
Di città in cui i battelli
Scaricano l’aria di un cielo
Senza prigione né dolore.
LIV
Di lontano, dal cielo che si illumina
Di certo non ci si batte per la pioggia
Né per i rami frondosi
E nemmeno per l’acqua dei baci passeggera
L’aridità della gola
Delle infinite estati del vento
Il morso che t’offro
Più a nessuno servirà
Si richiude la porta su di noi
Nell’ora in cui tacciono gli usignoli
Sigillo son rimaste le tue labbra
– Dai tuoi ai miei –
forgiando un’identica assenza
I tuoi occhi rovesciati dal cielo
Fuggono lo sguardo assente e vuoto
guarda, gli uccelli ti abbandonano.

LV
Quando cessa il tempo d’amare
La luce soffia la speranza
E il ricordo del verbo
Porta la nuova primavera.
(traduzione dal francese di Jacqueline Spaccini)

Parigi, agosto 1998
____________________
Pubblicato da Linea d'ombra. Milano, n°136, settembre 1998, pp.42-45



(1) Sables, poèmes. L’Esprit des Péninsules, 1997, pagine non numerate.
(2) Il gioco di parole in francese era tra plantes (piante) et plaintes (lamenti). Tradurre letteralmente avrebbe fatto perdere l’effetto congiunto dato dai significanti e significati (N.d.T.).