domenica 25 dicembre 2011

I TRADUTTORI... TRADOTTI/2


Riprende la serie di interviste ai traduttori. Come già scritto, il titolo della serie gioca sul secondo significato di tradotti. Quante volte avete letto: «venne arrestato e tradotto in catene innanzi al giudice»?

Tradotto, cioè condotto (le mie catene sono di gommapiuma). 

E in effetti il traduttore conduce il significato (ma non solo) di un testo da una lingua all'altra. In Francia, c'è il vezzo di definirsi passeur, cioè traghettatore.

Ma un traduttore, a mio modo di vedere, è molto di più.
Ho chiesto di parlare di traduzione e di lingua a Paolo Pantaleo, amico, blogger e poeta di parole.

Paolo Pantaleo
                                                  * * *


COGNOME Pantaleo
NOME Paolo

LINGUA/E  Lèttone e Italiano

LUOGO Sesto Fiorentino (FI),  Italia

D.  Perché il traduttore?

R. Perché mi affascina la letteratura lettone e mi sono trovato costretto a tradurla, dato che in italiano non c'è quasi niente di tradotto dal lettone. Uno sporco lavoro che qualcuno doveva pur fare... Ma questa è la risposta burlona, in realtà tradurre autori lettoni è il modo più vicino alle mie attitudini che ho trovato per sentirmi parte di quella cultura e di quella società. Conoscere scrittori lettoni, entrare nella loro lingua e nel loro mondo mi fa sentire finalmente inserito nel contesto lettone. Il mio passaporto personale insomma, il mio esame di cittadinanza lettone.


D. Mestiere o professione, artigianato o arte?

R. Credo possa essere ognuna di queste cose. Per quello che riguarda me certamente mestiere e artigianato (povero). Ma di fronte a certi traduttori, pernso a Landolfi e Ripellino, ad esempio, credo si possa parlare decisamente di arte. Se penso a Serena Vitale o Claudia Zonghetti, direi altissima professione.

D.  Sempre interessante, come mestiere/professione/altro?

R. Io trovo insopportabile dovermi relazionare con il mondo dell'editoria. Dunque, per me nel momento in cui  considerassi la traduzione una professione, o un mestiere remunerativo, perderebbe gran parte dell'interesse.
D'altra parte quando in Lettonia ho incontrato la direttrice del centro per il copyright degli scrittori lettoni, essa stessa traduttrice, la prima cosa che mi ha raccomandato è stata «traduci per pubblicare, non per lasciare nel cassetto il tuo lavoro». Dunque sono in questo limbo, tradurre per pubblicare o per il mio piacere. Una via d'uscita, a cui a volte penso, è quella del self publishing, ma ovviamente in questo caso ci vuole l'accordo dell'autore.

D.  Metodo di lavoro?

R. La prima traduzione è puramente letterale, quasi a prescindere dal senso. La seconda stesura per rendere la traduzione almeno intellegibile e con un senso compiuto. Nella terza comincio a metterci le mani e a cercare di restituirle un senso di opera letteraria.

D. Il tuo stile

R. Traduco da così poco tempo che non credo di averne uno vero e proprio. Cerco di mantenere per quanto possibile lo stile dell'autore tradotto. Devo dire che mi trovo maggiormente a mio agio nel tradurre poesie che prosa, perché mi sento più a mio agio nel riportare il senso lirico di un lavoro che quello prosaico.
Mi colpì molto una volta leggere una postfazione alla traduzione di Tommaso Landolfi di Il viaggiatore incantato di Leskov, in cui Landolfi si lamentava con Einaudi perché gli aveva chiesto di tradurre il romanzo di Leskov, anziché le opere in versi: «L'Einaudi vorrebbe in me (e ci avrebbe diritto) un vivace entusiasmo: ahimè qui non posso servirlo. Tale è il mio avvilimento e il mio disinteresse per la letteratura, che in fondo tutto mi fa lo stesso. Insomma fa' un po' tu, solo tenendo presente che le pinate[1] pagine di prosa russa mi danno il panico; se russo ha da essere, sia almeno un poeta».  Io allora non capivo, sentendomi da lettore tanto attratto dalla narrativa specie quella russa. Da aspirante traduttore, lo capisco molto di più...

D.  Giornata traduttiva

R. Purtroppo non ho una giornata traduttiva. Ritaglio spicchi di tempo dal lavoro e dalla famiglia. In genere la sera, quando le luci si spengono, tranne quella del mio portatile.

D. Rapporto con l'autore tradotto

R. Alcuni autori che ho tradotto o che sarei in procinto di tradurre, non ci sono più. Con i due che sto traducendo adesso, sono invece in contatto. I rapporti sono diversi, perché molto diversi sono gli autori. Uno è il maggiore poeta lettone vivente, Imants Ziedonis, e il solo incontrarlo mi ha reso talmente onorato e felice. Difficile per le sua età e le condizioni di salute approfondire più di tanto conoscenza e relazioni. Con l'altra autrice che sto traducendo, Andra Manfelde, giovane poetessa e scrittrice, il rapporto è molto più stretto e regolare. Interessante per me è riuscire a entrare nella sua idea dell'opera, confrontarmi più che su singoli passaggi della traduzione, sulla natura complessiva del suo lavoro. È la parte più interessante e stimolante del lavoro, leggerla e farmi attraversare dalla sua voce, per poi lasciarle usare la mia e pronunciare le sue parole in una lingua nuova.


D. Cibliste ou sourcier/ère (ma anche sorcier/sorcière)?
Vale a dire : privilegi la lingua d’arrivo oppure quella di partenza?

R. La mia tendenza sarebbe quella di privilegiare la lingua d'arrivo. Sicché, a volte, per paura di lasciarmi andare, resto per paradosso troppo attaccato alla traduzione letterale.

D. Qual è il sale/pepe che ti rende unico come traduttore?

R. La lingua da cui traduco. Quando parlo con qualche editore, e dico che sono un traduttore dal lettone, la faccia del mio interlocutore è sempre sorpresa: «Ah, traduttore dal lèttone! Mai conosciuto uno prima».  A parte questo, non saprei cos'altro. Forse l'emozione che talvolta riesco a trasferire, dal mio leggere al mio tradurre, in un verso, o in una frase.


D. Una gioia

R. Aver potuto incontrare Imants Ziedonis. E il torsolo di mela che mi sono portato via da casa sua.

D. Una delusione

R. Non poter vivere nel Paese dalla cui lingua traduco.


D.  Qual è il fine che persegui quando traduci?

R. Sentirmi cittadino della Lettonia. La possibilità di scegliermi una patria di adozione. Poi sì, certo, anche poter dare voce ad una letteratura da noi sconosciuta.


D. Pensiero libero (lascia, se vuoi, un tuo sassolino-pensiero)

Restare dietro le quinte è una cosa che mi è sempre piaciuta. Far girare una macchina, nascondendosi dentro gli ingranaggi. Far capolino dietro alla tenda del palcoscenico, e godersi da lì la bellezza dell'arte, della poesia. Ospitare un quadro prezioso nella propria piccola bottega giusto il tempo di costruirgli intorno una cornice dignitosa e appropriata. Ecco, tutto qui.


25 dicembre 2011, giorno di natale.


[1] Significa: «pesanti e robuste».

martedì 13 dicembre 2011

La Fille aux yeux d'or: tradurre un mostro sacro

Per i miei studenti specialisti di italiano in L3.
BALZAC, simplement. 
IL TESTO ORIGINALE FRANCESE 
È IN FONDO ALLA PAGINA



Delacroix - La Femme caressant son perroquet (1827)


Ah, mio caro, fisicamente parlando, la sconosciuta è la persona più adorabilmente femmina[1] che abbia mai incontrato. Appartiene a quella genìa[2] femminile che gli antichi romani[3] chiamavano fulva, flava, la donna di fuoco. D’acchito, quel che mi ha più colpito, per cui sono ancora pazzo d’amore, sono [quei] due occhi gialli come quelli delle tigri, un giallo oro che brilla, oro vivo, oro pensante, oro che ama e vuole assolutamente venire nel taschino del tuo gilè[4]!
Mio caro, la conosciamo bene!, esclamò Paul. Qualche volta viene qui, è la Fanciulla dagli occhi d’oro. Le abbiamo dato quel nome. È una personcina di circa ventidue anni che ho visto qui quando vi erano i Borboni, ma in compagnia di[5] una donna che vale centomila volte più di lei.
Taci, Paul! È impossibile a qualunque donna superare questa fanciulla simile a una gatta che voglia venire a  strusciarsi[6] alle gambe, una fanciulla lattescente[7] dai capelli color della cenere, delicata all’apparenza ma che deve avere dei fili lanuginosi[8] sulla terza falange delle dita; e lungo le guance una peluria bianca la cui linea, luminosa in una bella giornata, inizia dalle orecchie e si perde nella scollatura[9].
Ah, l’altra, caro il mio de Marsay. Ha degli occhi neri che non hanno mai pianto ma che bruciano; sopracciglia corvine[10] che si congiungono e le danno un aspetto duro smentito dal reticolato a piegoline[11] delle sue labbra, sulle quali un bacio non si sofferma, labbra ardenti e fresche; un incarnato moresco al quale un uomo si scalda come al sole, ma, parola d’onore, ti assomiglia…
La lusinghi!
Una schiena sinuosa, la statura slanciata di una corvetta costruita per correre e che si precipita sul vascello mercantile con un’impetuosità (tutta) francese, mordendolo e affondandolo in quattro e quattr’otto.
Ma insomma, mio caro, che vuoi che m'importi di quella che non ho affatto visto!, riprese de Marsay. Dacché studio le donne, la mia sconosciuta è la sola il cui seno vergine, le forme ardenti e voluttuose mi abbiano[12] disegnato[13] la sola donna che io abbia mai sognato[14]! Ella è l’originale d’un dipinto delirante dal titolo Donna che accarezza la sua chimera, la più calda, la più infernale ispirazione del genio antico; una santa poesia prostituita da coloro che l’hanno copiata per gli affreschi e i mosaici; per un mucchio di borghesi che in questo cameo vedono solo pendaglio[15] e l’aggiungono alle loro chiavi di orologio, mentre invece[16] è tutta la donna, un abisso di piaceri in cui rotolarsi senza fine[17], mentre invece è una donna ideale che talvolta si vede, nella realtà, in Spagna, in Italia, quasi mai in Francia. Ebbene, questa fanciulla dagli occhi d’oro l’ho rivista, questa donna che accarezza la sua chimera, l’ho rivista qui, venerdì.
H. de Balzac, La fanciulla dagli occhi d’oro (1835)
Traduzione originale di Jacqueline Spaccini




[1] Qui si parla di sensi, di una donna di rango inferiore, la si assimilerà agli animali. Opto per *femmina* come a dire donna-donna, sensualmente e sessualmente parlando.
[2] *specie*, *razza*, *varietà*.
[3] In italiano, non si mette la maiuscola ai nomi che indicano l’appartenenza geografica o storico-geografica. Per distinguere i *romani* di oggi da quelli dell’antichità, si dice generalmente *gli antichi romani*. I non italiani dicono *Latini*.
[4] *panciotto*.
[5][5] È scritto *avec* (= con). Ma *in compagnia di*  è indubbiamente  più elegante e «fa » più XIXe siècle.
[6] Lett. *sfiorare*, ma di un gatto si dice *strusciarsi*, *strofinarsi* (a/contro).
[7] Lett. *bianca*, ma ormai una pelle bianca si contrappone a nera e sta a indicare l’origine europea, caucasica. Ecco perché ho preferito *lattescente* che contiene il colore bianco (latte) e il complimento insito.
[8] Da quello che ho capito, l’autore mette in bocca al suo sciocco e arrogante de Marsay parole che dovrebbero rivelare la natura fisica della giovane donna. Che vuol dire avere dei fili  lanuginosi alle dita? Che la persona ha le dita pelose, probabilmente. Notare che in italiano si preferisce la lana (lanuginoso) al cotone (cotonneux).
[9] Col non può essere tradotto collo (= cou). In alternativa: *scollo* (ma in genere richiede un di/del/della che lo segue).
[10] Per non ripetere *nero*.
[11] A pieghe, pieghettato, etc.
[12] È la sola che… + congiuntivo.
[13] *Realizzato* è moderno e americanizzante, qui.
[14] Che io mi sia  mai sognato (sognarsi qualcuno, COD).
[15] *ninnolo*.
[16] Ho aggiunto *invece* che non c’è nel testo, per dare forza a quel *mentre* che è abbastanza debole da solo per restituire *tandis que*.
[17] Senza mai fermarsi, senza fermarsi mai.

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TESTO ORIGINALE

Ah ! mon cher, physiquement parlant, l'inconnue est la personne la plus adorablement femme que j'aie jamais rencontrée. Elle appartient à cette variété féminine que les Romains nommaient fulva, flava, la femme de feu. Et d'abord, ce qui m'a le plus frappé, ce dont je suis encore épris, ce sont deux yeux jaunes comme ceux des tigres, un jaune d'or qui brille, de l'or vivant, de l'or qui pense, de l'or qui aime et veut absolument venir dans votre gousset !
-- Nous ne connaissons que ca, mon cher ! s'écria Paul. Elle vient quelquefois ici, c'est la Fille aux yeux d'or. Nous lui avons donné ce nom-là. C'est une jeune personne d'environ vingt-deux ans, et que j'ai vue ici quand les Bourbons y étaient, mais avec une femme qui vaut cent mille fois mieux qu'elle.
-- Tais-toi, Paul ! Il est impossible à quelque femme que ce soit, de surpasser cette fille semblable à une chatte qui veut venir frôler vos jambes, une fille blanche à cheveux cendrés, délicate en apparence, mais qui doit avoir des fils cotonneux sur la troisième phalange de ses doigts ; et le long des joues un duvet blanc dont la ligne, lumineuse par un beau jour, commence aux oreilles et se perd sur le col.
-- Ah ! l'autre ! mon cher de Marsay. Elle vous a des yeux noirs qui n'ont jamais pleuré, mais qui brûlent ; des sourcils noirs qui se rejoignent et lui donnent un air de dureté démentie par le réseau plissé de ses lèvres, sur lesquelles un baiser ne reste pas, des lèvres ardentes et fraîches ; un teint mauresque auquel un homme se chauffe comme au soleil ; mais, ma parole d'honneur, elle te ressemble...
-- Tu la flattes !
-- Une taille cambrée, la taille élancée d'une corvette construite pour faire la course, et qui se rue sur le vaisseau marchand avec une impétuosité française, le mord et le coule bas en deux temps.
-- Enfin, mon cher, que me fait celle que je n'ai point vue ! reprit de Marsay. Depuis que j'étudie les femmes, mon inconnue est la seule dont le sein vierge, les formes ardentes et voluptueuses m'aient réalisé la seule femme que j'aie rêvée, moi ! Elle est l'original de la délirante peinture, appelée la femme caressant sa chimère, la plus chaude, la plus infernale inspiration du génie antique ; une sainte poésie prostituée par ceux qui l'ont copiée pour les fresques et les mosaïques ; pour un tas de bourgeois qui ne voient dans ce camée qu'une breloque, et la mettent à leurs clefs de montre, tandis que c'est toute la femme, un abîme de plaisirs où l'on roule sans en trouver la fin, tandis que c'est une femme idéale qui se voit quelquefois en réalité dans l'Espagne, dans l'Italie, presque jamais en France. Hé ! bien, j'ai revu cette fille aux yeux d'or, cette femme caressant sa chimère, je l'ai revue ici, vendredi.
H. de Balzac, La Fille aux yeux d’or (1835)

domenica 11 dicembre 2011

Puskin in una citazione di George Steiner

Traduco un breve passaggio di una bella intervista allo scrittore, teorico della traduzione, saggista, filosofo (e chi più ne ha, più ne metta) George Steiner (1) pubblicata questa settimana, nel n° 3230 di Télérama:

Aleksandr Sergeevič Puškin

Lei non si considera un creatore?

No, non bisogna confondere i ruoli. Persino il critico, il commentatore, l'esegeta più bravo è lontano anni luce dal creatore.  
Puškin diceva: «Ti ringrazio traduttore mio, grazie a te, mio editore, e ringrazio te, mio critico: voi recapitate le mie lettere, ma sono io che le scrivo». 
Anch'io recapito la posta (2).
 * * * 

Une fois n'est pas coutume (almeno secondo me), eccovi un  esempio  di traduzione cosiddetta cibliste, che va cioè a vantaggio della lingua cible (= bersaglio),  la lingua di destinazione (in questo caso l'italiano). 




____________

(1) Per sapere qualcosa di più su George Steiner, clicca qui.

(2) Vous ne vous considérez pas comme un créateur ?
Non, il ne faut pas confondre les fonctions. Même le critique, le commentateur, l'exégète le plus doué est à des années-lumière du créateur. Pouchkine disait : « Merci mon traducteur, merci mon éditeur, merci mon critique, vous portez mes lettres, c'est moi qui les écris ». Moi aussi, je porte le courrier. [Télérama n° 3230 du 10 au 16 décembre 2011, « Le penseur George Steiner - entretien », p. 20]

mercoledì 30 novembre 2011

Tradurre l'incipit del CANDIDE di Voltaire


 TRADUZIONE DELL'INCIPIT DI CANDIDO DI VOLTAIRE.

 
V’era in Vestfalia, nel castello del barone di Thunder-ten-tronckh, un giovincello al quale la natura aveva dato i costumi più miti. La fisionomia ne annunciava l’anima. Aveva un discernimento abbastanza retto con l’animo più semplice; è – credo – per questo motivo che si chiamava Candido. Gli anziani domestici della casa sospettavano che fosse il figlio della sorella del barone e di un buono e onest’uomo del vicinato che detta signorina non volle mai sposare perché costui aveva potuto provare appena settantuno quarti di nobiltà e il resto del suo albero genealogico era andato perduto per l’ingiuria del tempo.
Il barone era uno dei più potenti signori della Vestfalia, giacché il suo castello aveva una porta e delle finestre. La sala maggiore era tappezzata di arazzi. Tutti i cani del cortile arrivavano a comporre una muta, alla bisogna; i palafrenieri era i suoi bracchieri, il pretonzolo del villaggio il suo arcivescovo personale. Costoro lo chiamavano Sua Grazia e ridevano quando raccontava delle storielle.
La baronessa che pesava all’incirca trecentocinquanta libbre (oltre 160 chili) attirava su di sé, per questo motivo, una grandissima considerazione e faceva gli onori di casa con una dignità che la rendeva ancora più rispettabile. Sua figlia Cunegonda, diciassettenne, era persona originalissima, fresca, grassa e appetitosa. Il figlio del barone sembrava essere in tutto e per tutto degno figlio di suo padre. Il precettore Pangloss era l’oracolo della casa e il giovane Candido ne seguiva le lezioni con tutta la buona fede che la sua età e il suo carattere gli conferivano […]
«È dimostrato – diceva costui – che le cose non possono essere altrimenti: giacché – essendo tutto fatto per un fine – tutto è fatto necessariamente per il fine migliore. Notate bene che i nasi sono stati fatti per portare gli occhiali, perciò abbiamo gli occhiali. Le gambe sono chiaramente stata istituite per essere calzate e abbiamo le calzature. Le pietre sono state squadrate per essere tagliate e per farne castelli perciò Sua Grazia ha un bellissimo castello: il più gran barone della provincia deve essere il meglio alloggiato ed essendo fatti i maiali per essere mangiati, mangiamo maiale tutto l’anno; di conseguenza, coloro i quali pretendono che tutto va bene hanno detto una sciocchezza; occorreva dire che tutto va per il meglio».
Candido ascoltava attentamente e vi credeva innocentemente; giacché trovava Cunegonda veramente bella, sebbene non prendesse mai l’ardire di dirglielo. Concludeva che dopo la felicità di esser nato barone di Thunder-ten-tronckh, il secondo grado di felicità fosse quello di essere Cunegonda; il terzo di vederla tutti i giorni; e il quarto, di sentire il dotto Pangloss, il più grande filosofo della provincia, e di conseguenza di tutta la terra.

 Jacqueline Spaccini © 2011 

Questa è un esempio di traduzione sourcière
nel senso che si tratta di una traduzione fedele 
al testo di origine.



Segue come si è arrivati a tale traduzione insieme con gli studenti:


Il y avait en Westphalie, dans le château de M. le baron de Thunder-ten-tronckh, un jeune garçon à qui la nature avait donné les mœurs les plus douces. Sa physionomie annonçait son âme. Il avait le jugement assez droit, avec l'esprit le plus simple ; c'est, je crois, pour cette raison qu'on le nommait Candide. Les anciens domestiques de la maison soupçonnaient qu'il était fils de la sœur de monsieur le baron et d'un bon et honnête gentilhomme du voisinage, que cette demoiselle ne voulut jamais épouser parce qu'il n'avait pu prouver que soixante et onze quartiers, et que le reste de son arbre généalogique avait été perdu par l'injure du temps.

V’era in Vestfalia, nel castello del barone[1] di Thunder-ten-tronckh, un giovincello[2] al quale la natura aveva dato i costumi più miti. La fisionomia ne annunciava l’anima. Aveva un discernimento abbastanza retto con l’animo più semplice; è – credo – per questo motivo che lo chiamavano Candido. Gli anziani domestici della casa sospettavano che fosse il figlio della sorella del barone e di un buono e onest’uomo del vicinato che detta signorina non volle mai sposare perché costui aveva potuto provare appena settantuno quarti di nobiltà e il resto del suo albero genealogico era andato perduto per l’ingiuria del tempo.

Monsieur le baron était un des plus puissants seigneurs de la Westphalie, car son château avait une porte et des fenêtres. Sa grande salle même était ornée d'une tapisserie. Tous les chiens de ses basses-cours composaient une meute dans le besoin ; ses palefreniers étaient ses piqueurs ; le vicaire du village était son grand aumônier. Ils l'appelaient tous monseigneur, et ils riaient quand il faisait des contes.

Il barone era uno dei più potenti signori della Vestfalia, giacché il suo castello aveva una porta e delle finestre. La sala maggiore era tappezzata di arazzi. Tutti i cani del cortile arrivavano a comporre una muta alla bisogna, i palafrenieri era i suoi bracchieri[3], il pretonzolo del villaggio il suo cappellano[4]. Costoro lo chiamavano sua grazia/eccellenza/monsignore[5] e ridevano quando raccontava delle storielle.

Madame la baronne, qui pesait environ trois cent cinquante livres, s'attirait par là une très grande considération, et faisait les honneurs de la maison avec une dignité qui la rendait encore plus respectable. Sa fille Cunégonde, âgée de dix-sept ans, était haute en couleur, fraîche, grasse, appétissante. Le fils du baron paraissait en tout digne de son père. Le précepteur Pangloss était l'oracle de la maison, et le petit Candide écoutait ses leçons avec toute la bonne foi de son âge et de son caractère. […]

La baronessa che pesava all’incirca trecentocinquanta libbre (oltre 160 chili) attirava su di sé per questo motivo una grandissima considerazione e faceva gli onori di casa con una dignità che la rendeva ancora più rispettabile. Sua figlia Cunegonda, diciassettenne, era pittoresca, fresca, grassa e appetitosa. Il figlio del barone sembrava essere in tutto e per tutto degno figlio di suo padre. Il precettore Pangloss era l’oracolo della casa e il piccolo Candido ne seguiva le lezioni con tutta la buona fede che la sua età e il suo carattere gli conferivano […]

« Il est démontré, disait-il, que les choses ne peuvent être autrement : car, tout étant fait pour une fin, tout est nécessairement pour la meilleure fin. Remarquez bien que les nez ont été faits pour porter des lunettes, aussi avons-nous des lunettes. Les jambes sont visiblement instituées pour être chaussées, et nous avons des chausses. Les pierres ont été formées pour être taillées, et pour en faire des châteaux, aussi monseigneur a un très beau château ; le plus grand baron de la province doit être le mieux logé ; et, les cochons étant faits pour être mangés, nous mangeons du porc toute l'année : par conséquent, ceux qui ont avancé que tout est bien ont dit une sottise ; il fallait dire que tout est au mieux[6]. »

«È dimostrato – diceva – che le cose non possono essere altrimenti : giacché essendo tutto fatto per un fine, tutto è necessariamente per il fine migliore[7]. Notate bene che i nasi sono stati fatti per portare gli occhiali, perciò abbiamo gli occhiali. Le gambe sono chiaramente stata istituite per essere calzate e abbiamo le calzature[8]. Le pietre sono state formate per essere tagliate e per farne castelli perciò sua grazia ha un bellissimo castello, il più gran barone della provincia deve essere il meglio alloggiato ed essendo fatti i maiali per essere mangiati, mangiamo maiale tutto l’anno: di conseguenza, coloro i quali pretendono che tutto va bene hanno detto una sciocchezza; occorreva dire che tutto va per il meglio».

Candide écoutait attentivement, et croyait innocemment ; car il trouvait Mlle Cunégonde extrêmement belle, quoiqu'il ne prît jamais la hardiesse de le lui dire. Il concluait qu'après le bonheur d'être né baron de Thunder-ten-tronckh, le second degré de bonheur était d'être Mlle Cunégonde ; le troisième, de la voir tous les jours ; et le quatrième, d'entendre maître[9] Pangloss, le plus grand philosophe de la province, et par conséquent de toute la terre.

Candido ascoltava attentamente e credeva innocentemente ; giacché trovava Cunegonda veramente bella, sebbene non avesse/non gli prendesse/ mai l’ardire[10] di dirglielo. Concludeva che dopo la felicità di esser nato barone di Thunder-ten-tronckh, il secondo grado di felicità fosse quello di essere Cunegonda; il terzo di vederla tutti i giorni; e il quarto, di sentire il dotto Pangloss, il più grande filosofo della provincia, e di conseguenza di tutta la terra.

Jacqueline Spaccini © 2011


Le texte original

Il y avait en Westphalie, dans le château de M. le baron de Thunder-ten-tronckh, un jeune garçon à qui la nature avait donné les mœurs les plus douces. Sa physionomie annonçait son âme. Il avait le jugement assez droit, avec l'esprit le plus simple ; c'est, je crois, pour cette raison qu'on le nommait Candide. Les anciens domestiques de la maison soupçonnaient qu'il était fils de la sœur de monsieur le baron et d'un bon et honnête gentilhomme du voisinage, que cette demoiselle ne voulut jamais épouser parce qu'il n'avait pu prouver que soixante et onze quartiers, et que le reste de son arbre généalogique avait été perdu par l'injure du temps.
Monsieur le baron était un des plus puissants seigneurs de la Westphalie, car son château avait une porte et des fenêtres. Sa grande salle même était ornée d'une tapisserie. Tous les chiens de ses basses-cours composaient une meute dans le besoin ; ses palefreniers étaient ses piqueurs ; le vicaire du village était son grand aumônier. Ils l'appelaient tous monseigneur, et ils riaient quand il faisait des contes.
Madame la baronne, qui pesait environ trois cent cinquante livres, s'attirait par là une très grande considération, et faisait les honneurs de la maison avec une dignité qui la rendait encore plus respectable. Sa fille Cunégonde, âgée de dix-sept ans, était haute en couleur, fraîche, grasse, appétissante. Le fils du baron paraissait en tout digne de son père. Le précepteur Pangloss était l'oracle de la maison, et le petit Candide écoutait ses leçons avec toute la bonne foi de son âge et de son caractère. […]
« Il est démontré, disait-il, que les choses ne peuvent être autrement : car, tout étant fait pour une fin, tout est nécessairement pour la meilleure fin. Remarquez bien que les nez ont été faits pour porter des lunettes, aussi avons-nous des lunettes. Les jambes sont visiblement instituées pour être chaussées, et nous avons des chausses. Les pierres ont été formées pour être taillées, et pour en faire des châteaux, aussi monseigneur a un très beau château ; le plus grand baron de la province doit être le mieux logé ; et, les cochons étant faits pour être mangés, nous mangeons du porc toute l'année : par conséquent, ceux qui ont avancé que tout est bien ont dit une sottise ; il fallait dire que tout est au mieux. »
Candide écoutait attentivement, et croyait innocemment ; car il trouvait Mlle Cunégonde extrêmement belle, quoiqu'il ne prît jamais la hardiesse de le lui dire. Il concluait qu'après le bonheur d'être né baron de Thunder-ten-tronckh, le second degré de bonheur était d'être Mlle Cunégonde ; le troisième, de la voir tous les jours ; et le quatrième, d'entendre maître Pangloss, le plus grand philosophe de la province, et par conséquent de toute la terre.




[1] Attenzione! se si opta per signor barone poi – per un discorso di coerenza - ci sarà la signora baronessa e [la] madamigella Cunegonda
[2] Ragazzetto (moderno); ragazzino (meno di 14 anni); giovanetto/giovinetto (XVIII-XIX secolo)
[3] Il termine bracchiere è quello specifico. Tuttavia, avevo trovato in un primo momento «addestratori di cani» e infine  *conduttori di cani da caccia* e anche *conduttori di mute*  [dal dizionario: conduttore -  è il soggetto abilitato che impartisce comandi e dirige il cane abilitato nella ricerca del selvatico oggetto di recupero
[4] Cercare una parola che renda la petitesse insita nella parola  *vicaire* (da contrapporre a *grand aumônier*), sennò l’ironia si perde. Per esempio traducendo vicaire con *pretonzolo*, *pretino* del villaggio.  Grande elemosiniere (ironico), per fare più moderno e (soprattutto) comprensibile a un lettore italiano che non sa chi sia un grande elemosiniere e anche dal punto di vista dell’ironia, si potrebbe tradurre: vescovo personale, cardinale privato.
[5] Attenzione, in genere *Monsignore* è l’appellativo con il quale ci si rivolge a un (arci)vescovo. (Eminenza, se si tratta di un cardinale)
[6] Tradurre come se ci fosse scritto: *va* (anche prima) seguito da *per*
[7] Traduzione alternativa: «È dimostrato - diceva  - che le cose non possono essere in altro modo: perché siccome tutto è creato per un fine, tutto è necessariamente per il migliore dei fini».
[8] Il (falso) problema di *chausses*: *chausses* dovrebbe esser tradotto *calzamaglia* (ma allora vorrebbe dire che siamo tra il Medioevo e il '500); meglio *calze* (stando al fatto che Candide dovrebbe esser situato nella seconda metà del '700, all'epoca del terremoto di Lisbona; cfr. immagini di questo video) e poi si riferisce alle gambe. *Brache*, a rigore, no, giacché sono la parte superiore, quella con i lacci, quella esclusivamente al di sopra del ginocchio (poi nel tempo estesa fino al calcagno, donde i pantaloni). Comunque, si può tradurre anche più modernamente: calzoni, pantaloni. Per estensione, qui, calzature (e per non scioccare il lettore italiano del XXI secolo!).
[9] Precettore quando c’è la parola précepteur. Ma quando c’è maître che cosa scegliere tra: *maestro*, *mastro*, *professor* o addirittura  *signor* [Pangloss]? Io ho optato per un’altra parola ancora (*dotto*). Se maître designa l’avvocato o il notaio, si dirà (l’) avvocato [+ cognome], (il) notaio [+ cognome]. Es. Buongiorno, avvocato Dufour; l’avvocato Dufour difenderà l’uomo sospettato di aver ucciso…
[10] Anche : la libertà, la licenza

Traduzione dell'incipit di HIER di Ágota Kristóf




Ieri 
Ieri, soffiava un vento conosciuto. Un vento che avevo già incontrato. La primavera era precoce. Camminavo nel vento con passo deciso, svelto, come ogni mattina. Avevo però voglia di ritrovare il mio letto e di rimanerci dentro fino a quando non avessi sentito avvicinarsi quella cosa che non è voce né gusto né odore, solo un ricordo vaghissimo, venuto da oltre i confini della memoria. Lentamente, s'è aperta la porta e le mie mani penzolanti hanno avvertito con terrore i peli serici e dolci della tigre.

 - Musica, disse. Suona qualcosa! Al violino o al piano. Al piano, magari, ma suona!  

- Non lo so fare, dissi. Non ho mai suonato il piano in vita mia, non ho un piano, non ne ho mai avuti.

- In tutta la tua vita? Che sciocchezze! Vai alla finestra e suona!

Davanti alla finestra, c'era una foresta. Ho visto gli uccelli riunirsi sui rami per ascoltare la mia musica. Ho visto gli uccelli. Le testoline piegate e gli occhietti fissi che guardavano da qualche parte attraverso me. 

La musica si faceva sempre più forte. Diventava insopportabile. Un uccello morto cadeva da un ramo. La musica si è fermata.

Mi sono voltato.

Seduta in mezzo alla stanza, la tigre sorrideva.

- Per oggi basta così, disse. Dovresti esercitarti più spesso (*).

La traduzione è mia, non conosco quella italiana. 
Ho arbitrariamente modificato il vous francese traducendolo con il tu (invece che con il Lei di cortesia). Perché ritengo che la tigre in italiano dia del tu al narratore (autodiegetico).
L'avrete capito. Il protagonista sogna. Anzi, poverino, soffre di incubi notturni. All'inizio mi ha dato proprio fastidio questo suo francese (che voi leggete qui tradotto in italiano, ma in nota troverete la versione originale), a mezza strada tra Prévert e Camus.
Un francese a metà, che non mi sembrava volutamente elementare, bensì necessariamente e -  con ciò stesso - eccessivamente rigido, inibito, segreto.
_______
Testo originale:
(*) Hier, il soufflait un vent connu. Un vent que j'avais déjà rencontré. C'était un printemps précoce. Je marchais dans le vent d'un pas décidé, rapide, comme tous les matins. Pourtant, j'avais envie de retrouver mon lit et de m'y coucher, immobile, sans pensées, sans désirs, et d'y rester couché jusqu'au moment où je sentirais approcher cette chose qui n'est ni voix, ni goût, ni odeur, seulement un souvenir très vague, venu d'au-delà des limites de la mémoire. Lentement, la porte s'est ouverte et mes mains pendantes ont senti avec effroi les poils soyeux et doux du tigre. 
- De la musique, dit-il. Jouez quelque chose ! Au violon ou au piano. Au piano, plutôt. Jouez ! 
- Je ne sais pas, dis-je. Je n'ai jamais joué de piano de toute ma vie, je n'ai pas de piano, je n'en ai jamais eu.
- De toute votre vie ? Quelle sottise ! Allez à la fenêtre et jouez !
En face de ma fenêtre, il y avait une forêt. J'ai vu les oiseaux se rassembler sur les branches pour écouter ma musique. J'ai vu les oiseaux. Leur petite tête penchée et leurs yeux fixes qui regardaient quelque part à travers moi.
Ma musique se faisait de plus en plus forte. Elle devenait insupportable.
Un oiseau mort est tombé d'une branche.
La musique a cessé.
Je me suis retourné.
Assis au milieu de la chambre, le tigre souriait.
- Cela suffit pour aujourd'hui, dit-il. Vous devriez vous exercer plus souvent.

mercoledì 10 agosto 2011

La poesia (in realtà una lettera) erotica di George Sand

 

George Sand - cioè Aurore Dupin, nella vita di tutti i giorni - scrive una lettera d'amore al suo Alfred de Musset sotto forma di poesia. Siamo nel 1835.

La riporto qui per intero:
Je suis très émue de vous dire que j'ai
bien compris l'autre soir que vous aviez
toujours une envie folle de me faire
danser. Je garde le souvenir de votre
baiser et je voudrais bien que ce soit
là une preuve que je puisse être aimée
par vous. Je suis prête à vous montrer mon
affection toute désintéressée sans cal-
cul, et si vous voulez me voir aussi
vous dévoiler sans artifice mon âme
toute nue, venez me faire une visite.
Nous causerons en amis, franchement.
Je vous prouverai que je suis la femme
sincère, capable de vous offrir l'affection
la plus profonde comme la plus étroite
amitié, en un mot la meilleure preuve
que vous puissiez rêver, puisque votre
âme est libre. Pensez que la solitude où j'ha-
bite est bien longue, bien dure et souvent
difficile. Ainsi, en y songeant j'ai l'âme
grosse. Accourez donc vite et venez me la
faire oublier par l'amour où je veux me
mettre.

George Sand à Alfred de Musset (1835)


Traduzione mia:


Sono emozionatissima nel dirvi che ho
 capito benissimo l'altra sera che avevate 
sempre una voglia matta di fare un po' 
di ballo. Conservo il ricordo 
d'amore e vorrei proprio che sia
questa una prova che posso essere da voi amata
con tutta la forza. Sono pronta a mostrarvi il mio
affetto disinteressatissimo, senza calcolo ma-
culo e se volete anche vedermi
svelarvi senza artifizio alcuno la mia anima
completamente nuda, venite a farmi visita.
Chiacchiereremo con franchezza, da buoni amici.
Vi proverò che sono la donna
sincera capace di offrirvi l'affezione
più profonda com'anche la più stretta
amicizia, insomma, la prova migliore
che possiate sognare poiché la vostra
anima è libera. Pensate che la solitudine che mi am-
mazza è lunga, durissima e spesso
difficile. Così, riflettendoci sopra, ho l'anima
gonfia. Accorrete presto e venitemela a 
far dimenticare con quell'amore in cui mi voglio
infilare tutta.


Che noia, com'è stucchevole, direte. Già.
Il fatto è che non è per nulla quel che sembra.
Leggetela saltando le righe pari.
Mi direte. 

Jacqueline Spaccini@2010

lunedì 9 maggio 2011

Segnalare altrui link

Houlgate (photo by JSpaccini©2011)

Cliccando qui trovi una pagina molto interessante che riguarda l'arte del tradurre a cura di Mario Marchetti e che ha per titolo L'arte dell'approdo. Sottotitolo: Sparse notazioni dal campo di un traduttore di saggistica.


domenica 24 aprile 2011

Tradurre fiabe in rima o in prosa

Tradurre dall'italiano al francese una fiaba moderna.
Quali le difficoltà?
Intanto, c'è da dire che io scrivo in francese, traduco dal francese all'italiano ma non viceversa. Ma alla bisogna e per me stessa, se c'è da fare, mi metto all'opra.
Adesso per esempio, debbo occuparmi di fiabe italiane e debbo presentarle a un pubblico francofono. Quindi alcuni passaggi andranno tradotti.
Innanzitutto occorre vedere se si tratta di una fiaba in 1. versi rimati oppure in 2. prosa (ma c'è prosa e prosa!).

Prendiamo il caso 1., quello di una fiaba di oggi in rima. Attingo da Tiritere di Mia  Lecomte di cui ho parlato qui.



Sono storie raccontate – in modo bislacco e divertente – da tre libellule che amano il dolce far niente. C’è, per esempio, la favola della figlia di un re la quale, a cagion della sua ciccia, si chiama Biglia. Qual è il suo problema?  

Mordeva ogni cosa/la bimba golosa, /da buona davvero/a proprio schifosa.

Es. n. 1- versi di 6 sillabe rima baciata in  *osa*.

Mordeva ogni cosa
la bimba golosa
da buona davvero
a proprio schifosa.

Prima possibilità: restituire il solo contenuto. Proviamo. Tra parentesi metto trascrizione fonetica, secondo le regole dell'AFI (alfabeto fonetico internazionale)

Elle mordait n'importe quoi [wa]
cette enfant gourmande [ã: d]
tout ce qui était bon [õ]
et aussi ce qui était dégoûtant [ã]

Ma non c'è rima. Ed è meglio non contare le sillabe che crescono a dismisura.

Allora cominciamo col trovare due sinonimi di *bon* e di *dégoûtant* che possano anche rimare tra loro.

A un secondo grado si potrà opporre *alléchant* a *répugnant* (la rima e il senso ci sono).
C'è da far rimare i primi 2 versi (cosa/golosa), se possibile...
È una strada troppo lunga e non porterebbe lontano nei nostri scopi.

Rocambolescamente, il traduttore indossa i panni dell' (umile) poeta.
Il traduttore mantiene il senso, inserisce zeppe oppure ne toglie, va per sensi approssimativi, mantiene il ritmo e il contenuto.
Esempio:

Cette enfant du roi
mordait gourmande
n'importe quoi :
ce qui était alléchant
comme l'oie flamande
ce qui était répugnant
au parfum de lavande.

Qui ho esagerato, evidentemente. Mi son lasciata prendere la mano. Per zeppa bisogna intendere qualcosa che non superi il bisillabo, già. Però, chissà, un lettore può trovare in un battibaleno una soluzione ben migliore della mia.

Lascio ad altri la traduzione in rima e passo all'esempio n. 2. Apparentemente molto più semplice: la fiaba in prosa.
Prendiamo  La principessa Sabbiadoro dell'austriaca Barbara Pumhösel che scrive in italiano.



 Es. n. 2
Tanto tempo fa...
Non si sa se la passione per la sabbia fosse dovuta al suo nome, fatto sta che la principessa Sabbiadoro già a quattro anni faceva i castelli di sabbia più belli del regno. Può darsi che qualche madrina un po' fata avesse previsto questa sua predilezione e avesse suggerito quel nome con una tale discrezione che il re e la regina alla fine si erano convinti di averlo scelto loro di comune accordo.

Il testo italiano si esprime in un linguaggio  favolistico orale (Tanto tempo fa, Non si sa se, Fatto sta che) che coinvolga i bambini (il libro - edito da Giunti junior - è destinato a bimbi che abbiano più di 6 anni) nell'ascolto, (madrina un po' fata - espressione che non esiste in italiano, ma che i bambini comprendono al volo) con qualche preziosismo di parola adulta (predilezione, discrezione), una sintassi complessa (le subordinate con congiuntivi trapassati e con gli infiniti passati). Il compito del traduttore è dunque quello di restituire quelle che sono le intenzioni dell'autrice.

Il ya bien longtemps ...
On ne sait pas si la passion pour le sable était due à son nom, le fait est que, déjà à quatre ans,
la princesse Sabledor fabriquait les plus beaux châteaux de sable du royaume. Il se pourrait que sa marraine-(quelque peu)fée ait prévu cette prédilection à elle et qu'elle ait suggéré ce prénom avec une telle discrétion que le roi et la reine furent bientôt convaincus qu'ils l'avaient choisi eux-mêmes d'un commun accord.(1)

E buone fiabe.

(1) Volendo si potrebbe antichizzare il testo sostituendo il congiuntivo passato *ait* prévu/suggéré con *eût* prévu/suggéré (congiuntivo trapassato), ma parliamo a bambini di 6 anni...



sabato 8 gennaio 2011

I traduttori sono gli psicanalisti degli autori

Omaggio (da Wuz )

Daniel Pennac: il traduttore è lo psicanalista dell'autore

Questo è il discorso tenuto da Daniel Pennac in occasione del premio che gli è stato consegnato in occasione delle Giornate della Traduzione di Urbino.
La traduzione dell'intervento è di Yasmina Melaouah, traduttrice ufficiale dell'amatissimo scrittore francese.
Le sue parole rendono ben evidente perché la giuria abbia deciso di premiare Daniel Pennac, ma le motivazioni “ufficiali” sono state così indicate dalla commissione: per l’inesausta disponibilità con cui affianca i suoi traduttori nelle varie fasi dell’interpretazione e della resa linguistica; per la generosa attenzione mostrata nei confronti delle loro condizioni di lavoro; per l’ideale testimonianza sul valore della traduzione di cui è portatore nel mondo della cultura.


Cari amici traduttori, luci della mia Pentecoste laica, lasciate che vi ringrazi e vi dica il mio stupore, che vi ringrazi per l’onore che mi fate assegnandomi questo premio e vi dica il mio stupore per aver scelto proprio me per questo onore.
Voi dite di essermi grati per il mio atteggiamento generale nei confronti dei traduttori. Quale gratitudine? Cosa sarebbe l’uomo che sono senza voi traduttori? Un uomo che non parla né legge alcuna lingua all’infuori della propria, nemmeno l’inglese; credo peraltro di essere l’ultimo europeo in questa triste condizione. Nemmeno l’italiano, nonostante i trent’anni di amicizia che ci legano. Quest’uomo ha un bisogno vitale dei traduttori, voi siete la mia vita, le mie vite, grazie a voi i miei libri rinascono e attraversano le frontiere. Dico rinascono poiché la traduzione di un testo letterario equivale a una nuova nascita e il ruolo che svolgono i traduttori in questa nascita viene considerato alla stregua di una creazione. La nozione di traduzione è inseparabile da quella di creazione; la pura e semplice trasposizione linguistica non è un atto di traduzione, bensì un atto di duplicazione che produce un ostrogoto incomprensibile. È sufficiente leggere le istruzioni per l’uso della mia lavatrice di origine tedesca, dal design italiano, con l’elettronica giapponese, fabbricata in Corea per essere indotti linguisticamente al suicidio.


Affinché un romanzo viva in un’altra lingua è necessario che qualcuno gli dia nuovamente vita in questa nuova lingua e questo qualcuno siete voi. In cosa consiste la nuova vita di un romanzo ben tradotto? In un testo che si incarna in una lingua che non è la sua lingua originale, nel vostro caso l’italiano, tanto da far esclamare al lettore “sembra scritto in italiano”, cosa che non si può dire delle istruzioni della vostra lavatrice. Ma che cosa ha provato l’illusione del lettore? La misteriosa forma dell’ottima traduzione, nella fattispecie la capacità di trasporre in un’altra lingua il lessico classico, popolare dell’autore straniero, il ritmo della sua scrittura, la sua musicalità, i suoi sottintesi, le sue allusioni, le svariate intenzioni dell’autore; in sostanza ciò che non è scritto e che potremmo chiamare lo spirito del testo. Capacità che fa del traduttore una sorta di psicanalista dell’autore. Ma chi dice spirito del testo dice anche spirito della lingua nella quale il testo è scritto, il che fa di voi anche etnologi attenti e linguisti puntigliosi; questa capacità di restituire lo spirito di una lingua straniera nella vostra lingua può nascere solo da una fusione con il testo e con la lingua di partenza, unita a una perfetta padronanza della lingua di arrivo, la vostra. Tale duplice competenza presuppone un’ubiquità linguistica e letteraria o, per essere più precisi, un intuito analogico; questo intuito analogico impone al traduttore di calarsi in una dimensione di ossessività, la quale, fra parentesi, è la stessa del romanziere al lavoro. Nell’esercizio di questa ossessione, Yasmina Melaouah, la mia traduttrice italiana, Eveline Passet, la mia traduttrice tedesca, Vlatka Valentic, la mia traduttrice croata, Akira Mitsubayashi, il mio traduttore giapponese, Sarah Adams, la mia traduttrice inglese, o Manuel Serrat Crespo, il mio traduttore spagnolo - per citarne solo alcuni - mi raggiungono spesso fin nel cuore dei miei testi. Ma l'ossessione, cari amici, lo sapete quanto me, richiede tempo. Richiede durata. E questo tempo, occorre remunerarlo.

Alcuni anni fa, a un convegno in cui mi è stato chiesto cosa pensassi del fatto che il traduttore è lo psicanalista dell'autore (poiché questa idea non è mia, e a quel convegno su di essa erano tutti unanimemente d'accordo), ho detto “sì, sì”, ho applaudito e ho suggerito quindi di allineare la retribuzione dei traduttori a quella degli psicanalisti. Ahimè, fine dell'unanimità. Nessuno era d'accordo con me, salvo i traduttori presenti, molto divertiti dall'idea. Giacché, professionalmente, voi siete schiavi dell'ossessione senza la remunerazione che la sua durata esige. E tuttavia traducete. Molto bene, nel caso di parecchi di voi.
Quando mi capita di leggere un romanzo straniero mal tradotto, prima di incolpare il traduttore mi chiedo sempre quanto tempo gli è stato concesso per entrare in intimità con il testo e nella profondità delle due lingue in gioco. E quando mi capita di leggere un'ottima traduzione la mia prima reazione è la gratitudine assoluta per il traduttore che ha trovato il tempo per la propria ossessione, che si è consacrato all'utopia letteraria, nonostante una logica di mercato che si interessa alle lettere solo quando diventano cifre, grosse cifre, e che non distingue tra la letteratura e le istruzioni per l'uso delle nostre lavatrici.


Di tutto questo, dunque, della vostra ubiquità, della vostra ossessività, del vostro impegno a far sì che ogni singolo romanzo si inscriva nella letteratura universale, vi ringrazio.



a cura di Paola Pedrinazzi