domenica 1 luglio 2012

I TRADUTTORI... TRADOTTI/3


Continua la serie di interviste ai traduttori. Come già scritto, il titolo della serie gioca sul secondo significato di tradotti. Quante volte avete letto: «venne arrestato e tradotto in catene innanzi al giudice»?  Tradotto, cioè condotto. E dunque stavolta tocca a...


photo by franceculture.fr
* * *

COGNOME Martella

NOME Marco

LINGUA/E Francese, inglese e Italiano

LUOGO Parigi, Francia

D. Italiano per nascita e cultura, francese «di suolo» da oltre vent'anni, giunto a Parigi con una laurea in lingua e letteratura inglese in tasca.
Posso chiederle come nasce il suo lavoro di traduttore e se è il suo lavoro effettivo?

R. Sono stato traduttore per alcuni anni, effettivamente, ma lavoravo più nel campo del cinema e degli adattamenti. Da qualche anno a questa parte sono ufficialmente historien des jardins.  

D. Se non sbaglio ha anche un master di giardino storico, patrimonio e paesaggio...

R. Sì. Comunque, prima di «immergermi» nel folto mondo dei giardini, ricominciando a studiare e iscrivendomi all'École d'Architecture de Versailles, dove appunto ho conseguito il master, ho lavorato per alcuni anni nel mondo della traduzione come «adattatore».

D. Vuole spiegare meglio che  traduttore è un adattatore?

R. In poche parole, scrivevo i sottotitoli di film, perlopiù classici del cinema francese o americano, in italiano. 

D. Ha fatto anche traduzioni letterarie e/o meramente tecniche?

R. Di tutto un po'. Però diciamo che ho raramente lavorato come traduttore letterario. Quando l'ho fatto, si trattava di testi di poeti francesi per riviste di letteratura italiane.

D. E le piaceva?

R. Non posso dire di essere stato un traduttore «felice». Ho sempre trovato la posizione del traduttore molto scomoda, se non impossibile da tenere, essendo un ruolo di tramite tra due culture, necessario e nobile, che presuppone una grande generosità, un'apertura di spirito e una disponibilità che forse non ho.

D. Dunque non è un traduttore prettamente (unicamente) letterario, bensì a largo raggio.  Recentemente, lei ha vinto alcuni prestigiosi premi per la traduzione di un'opera che parla di giardini (Le Jardin perdu). Quest'opera, pubblicata in francese è stata recentemente tradotta anche in italiano. 
Mi scusi ma non le sembra un po' paradossale il fatto che lei, italiano, presenti in traduzione francese un testo inglese e che poi la successiva traduzione italiana non sia a sua cura?

R. No, non poi tanto paradossale. (Risatina)

Qual è stato lo scoglio maggiore di questo suo lavoro? Lo stile? La lingua in sé?

John Keats
R. La difficoltà sta proprio in questo essere « entre deux langues » (tra due lingue). Se anche dovessi trascorrere il resto della mia vita in Francia, il francese non diventerà mai la mia lingua. Non si tratta di padroneggiare o meno una lingua, bensì di «appartenere» a una lingua. Questo avviene solo - credo - con la propria lingua madre, quella che si impara insieme alla realtà, alla vita stessa.

D. E tuttavia, da tempo, lei scrive fluentemente (potrei aggiungere meglio di moltissimi «autoctoni») in francese...

R. Secondo Keats, la poesia deve nascere come le foglie da un ramo. Secondo me, una lingua ci deve essere perfettamente familiare (appunto come una madre), dev'essere insomma qualcosa di estremamente naturale, e tuttavia è vero che paradossalmente mi sono ritrovato a tentare un percorso diverso. 

D. Veramente non sono del tutto d'accordo con la concezione della poesia secondo Keats (al quale peraltro lei assomiglia tantissimo), ma mi parli dei suoi testi e di questo libro in particolare, perché lascia intendere altro...


Ile verte
Non saprei dire come sia avvenuto, ma in questi ultimi anni, lavorando come storico dei giardini, ho iniziato 
a usare il francese per scrivere articoli per la stampa specializzata e libriccini sulla storia di alcuni giardini in cui ho avuto la fortuna di lavorare, come l'Ile verte a Châtenay-Malabry o il Petit parc di Sceaux. Avevo iniziato a scrivere un saggio in italiano, ma senza troppa convinzione, e poi a un tratto mi sono accorto che la scrittura proseguiva in francese e tutto diventava più fluido, più convincente, perlomeno ai miei occhi... 


D. Ed è allora che entra in gioco l'oscuro filosofo giardiniere di origini islandesi, Jorn de Précy? 


R. Sì. Lui ha preso la parola in mia vece.

D. Per questo libro, lei è stato premiato inizialmente come traduttore e in seguito come autore. Vuol spiegare l'arcano?

R. L'arcano lo si capisce alla fine del libro, nella Nota dell'editore, laddove si suggerisce che l'autore del saggio Le Jardin Perdu, Jorn de Précy, forse non è mai esistito e che il traduttore potrebbe in realtà essere l'autore.

D'altronde, non è il primo a ricorrervi. Basterà ricordare il caso Boris Vian/Vernon  Sullivan

A questo punto il Marco Martella traduttore cede il passo allo scrittore. L'argomento traduttore/autore verrà approfondito nel mio blog letterario (clicca qui). Lì tireremo le somme dello strano caso (ma neanche tanto) di un traduttore che si fa autore. 

Per l'intanto, grazie, Marco Martella.

Saint-Loup-de-Naud, 30/06/2012


















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